DIO TAGLIA 60

di Mastro Tensione

La piscina comunale era l’unico posto dove andare in estate. Con le scuole chiuse e il campetto di calcio occupato dalle prime roulotte di zingari, non ci rimaneva che infilarci il costume, e correre lì con le bici. Grazielle, Bmx e strani ibridi di ferro con ruote di dimensioni diverse e senza freni. Qualche volta con l’acciaio dei cerchioni a far scintille sull’asfalto. Immortali e bellissimi, a gruppi di cinque o sei, abbandonavamo le bici, lasciandole cadere a terra con non curanza. Tra noi non ce lo dicevamo, ma più rimbalzavano sull’asfalto e facevano rumore di rotto, più eri figo. Ci incamminavamo verso l’ingresso, esaltati dal sole, con le croste che bruciavano. Le ferite sulle ginocchia erano le peggiori. Impiegavano un tempo infinito a rimarginarsi. Era proprio un posto di merda per farsi male, quello più complicato da asciugare dopo il bagno. All’ingresso della piscina Squartapanza, soldato del finto esercito dell’amministrazione comunale del tempo: tangenti e raccomandazioni, cascate di prosciutto e melone, ostriche e falanghina ai matrimoni, foto con dedica di Gianni Morandi e Peppino Di Capri per le figlie degli amici. Il trionfo del niente. Spazzini trasformati in infermieri, posteggiatori in consiglieri comunali, ex galeotti in bagnini. Era questa la nostra democrazia, assolutamente cristiana, di metà anni ’80. Tutti amici di tutti. Ognuno aveva uno zio, un nonno, un cugino che conosceva qualcun’altro che ti regalava l’abbonamento per la piscina. Squartapanza se ne stava seduto in canottiera con gli angoli dei baffi che pendevano verso il basso. “Uno alla volta, con l’abbonamento in vista”. Entravamo così, in fila indiana, cercando di tenere una certa calma, con l’eccitazione che ci pizzicava le pupille. L’abbonamento in una mano, il sacchetto coi panini nell’altra. Le piscine erano due. Una piccola per noi bambini, l’altra, quella grande, la usavano per le partite di pallanuoto. In quel periodo la squadra locale era così forte, da essere finita in serie A. Nonostante nessuno del posto avesse idea di come si giocasse quello sport, a tutte le partite gli spalti erano strapieni. Adulti, bambini, famiglie. I ragazzi più grandi portavano dentro grandi bidoni di ferro su cui battevano pesanti mazze di legno. Ne veniva fuori un frastuono difficile da spiegare. I giocatori della nostra squadra se la ridevano, gli avversari invece erano terrorizzati. Una roba così non si vedeva neanche negli stadi di calcio. Di quelle domeniche trascorse sugli spalti, travolto da una bolgia senza senso, ricordo distintamente due cose: la struttura che trema ad ogni gol, come se dovesse venir giù da un momento all’altro, e l’umidità da sauna. Era un continuo strofinare di occhiali appannati sulle magliette. A maniche corte a Dicembre. Sudati. Scalmanati. Non capivo bene, ma confuso in quella folla impazzita, mi sentivo parte di qualcosa di grande e inattaccabile. A metà settembre la piscina veniva chiusa al pubblico, coperta con dei teloni color blu piscina, e dedicata solo a quello sport che in città praticavano in dieci. Una disciplina troppo distante dalle nostre vite. Senza terra che sale in gola, dove non puoi correre e fare sgambetti, senza risse, senza pantaloni strappati e gomiti sanguinanti. Senza pallonate in faccia che spaccano il naso. Una roba così lontana che per noi manco esisteva. Per noi la piscina era altro. In inverno bidoni di ferro, in estate pizzette riscaldate, Coca cola in lattina grande e bomboloni alla fragola con la gomma dentro. La piscina per noi era quella col sole che sbatte sulle mattonelle, fa evaporare l’acqua e salire il cloro fino al cielo.
Subito dopo il passaggio sotto gli occhi di Squartapanza, c’era quello sotto gli occhi di Limbocchio. Sempre seduto su uno sgabello altissimo, manco fosse un arbitro di tennis, ci osservava sfilare e ogni santa mattina ci rivolgeva la solita porcata: “Uè, come stiamo a pesce oggi?”. Rideva lo stronzo. Arrivare per primi era impossibile. C’era sempre qualcuno che era lì prima di te. Nonostante l’ingresso fosse consentito dalle 9,00 e noi fossimo lì da ben prima, c’era sempre un gruppo di bambini già a mollo nell’acqua. Che erano lì già da un po’, lo capivi dalle loro labbra viola. Mi ero convinto che abitassero lì, tra gli spalti. In realtà in questa città, lavorare in un posto significava esserne padrone. Per cui se eri il custode della piscina, la sera potevi organizzarci una festa di compleanno solo con i tuoi parenti, proprio come fosse casa tua.
In piscina non c’erano regole particolari da rispettare. La doccia prima di entrare in acqua non era obbligatoria, nè lo era indossare la cuffia. Era obbligatorio avercela, non indossarla. Sul bordo della piscina si aggirava il bagnino: Elpidio. In qualche modo era parte della mia vita, benché non lo sapesse. Grosso come un Apecar, si raccontava che la domenica mangiasse sei fette di carne. Alto, imponente, massiccio, doppio, duro. Venticinque anni di carcere per omicidio, di botte con gli stranieri, di un’ora d’aria al giorno, di pacchi con cibo, vestiti nuovi e sigarette. Le riviste porno gliele portavano gli amici più cari. Fedeli compari di vita, presenti ai colloqui tutti i giovedì. Per venticinque anni. In cella aveva accumulato così tanti numeri de Le Ore, da averli legati con lo spago e usati come sgabelli. Elpidio, di tanto in tanto, ci controllava: “Oeee, la cuffia?” Ce la sfilavamo dal costume, e l’agitavamo sulle nostre teste per mostrargliela. Un giorno mi successe di perderla. Forse mentre facevamo il gioco della 200 lire. Bisognava lanciare una moneta sul fondo e recuperarla in apnea. La 200 lire era la più difficile da recuperare perché più piccola di tutte le altre monete. Fatto sta che quando cercai la mia cuffia tra l’elastico del costume e il fianco non la trovai. Elpidio fu categorico: “Senza cuffia, no”. Parlava senza verbi. Quella mattina i soldi della pizzetta, li intascò Limbocchio in cambio di una cuffia nuova. Non potevi mica contestare o giustificarti. Nessuno si era mai sognato una cosa del genere. Elpidio lì dentro era la legge. Non aveva neanche bisogno di imporsi o di fare la voce grossa. Bastava la sua presenza a far calare il silenzio. Nonostante siano passati più di venti anni, ricordo perfettamente l’impressione di grandezza che mi fece la prima volta che lo vidi. La voglia, il desiderio di essere come lui. Se ne stava seduto sul bordo con le gambe a mollo nell’ acqua e la pelle ricoperta di inchiostro. Sulla schiena una madonna enorme, sul braccio un pugnale con un serpente e una data, sul petto una bara con una croce e un’altra data. Una donna nuda a gambe aperte sull’altro braccio, poco sotto un cuore trafitto e una scritta che diceva “mamma perdonami”. Indossava un costume nero che quasi spariva sotto la piega della sua pancia. Aveva un posacenere di plastica gialla, con il logo di un autoricambi Fiat, appoggiato sulla pancia e la sigaretta che penzolava tra le labbra. Di certo il posacenere glielo aveva regalato mio zio, che all’autoricambi ci lavorava fin da ragazzo. Era lui che mi aveva fatto avere l’abbonamento gratis. Prima di allora non avevo mai visto un uomo tatuato. Su Elpidio si raccontavano un sacco di storie, ma sempre e solo a mezza voce e a debita distanza dalle sue orecchie. Avrebbe potuto schiacciarci con un’occhiata, tanto era grosso. La verità è che aveva ucciso un amico di famiglia, quando la figlia gli aveva raccontato delle sue attenzioni e delle sue carezze. Lo aveva accoltellato alla gola, incaprettato col fil di ferro e gettato nel Volturno. Il corpo venne a galla dopo pochi giorni. In città tutti sapevano chi fosse stato a compiere quell’omicidio e in breve la notizia giunse anche alla polizia. Assolto dalla gente, se ne stava seduto, pieno di disegni, a far rispettare la regola della cuffia e a sindacare sulle liti di noi bambini. “Colpa tua. Via dall’acqua”. Non avevi scelta. Prendevi le tue cose e te ne andavi. Punto. Nè quell’estate, nè quelle successive, lo abbiamo mai visto scendere in acqua. Mai una volta. Si bisbigliava che neanche sapesse nuotare. Non aveva nessuna importanza. Lui il bagnino lo faceva a modo suo, dal bordo. Come quella volta in cui una ragazzina si lanciò nella piscina dei grandi e finì quasi affogata. Si tuffò e sparì sott’acqua, per ricomparire, dopo un tempo che ci sembrò lunghissimo, boccheggiando e agitandosi in cerca di un appiglio. Elpidio tirò fuori le gambe dall’acqua senza dire una parola, fece due passi, piegò le ginocchia, infilò il braccio nell’acqua e tirò fuori la bambina tenendola per i capelli come un mago che tira fuori il coniglio dal cilindro. Le diede un paio di schiaffi per farla respirare e la adagiò su un asciugamano. Eccolo l’eroe senza gloria. Cazzuto, calmo e pieno di inchiostro. Col potere della vita e della morte. Eccolo. Dio taglia 60. Con gli occhi trasparenti e la voce che fa tremare. Quando tornai a casa raccontai tutta la storia ai miei genitori. Ero entusiasta, parlavo e non riuscivo a star fermo. Non capivano il mio entusiasmo. Non capivano perché non si fosse tuffato a salvarla. Non capivano che lui, ai miei occhi, era di più. Lui non aveva bisogno di fare le cose come le fanno gli altri. Aveva il suo segreto, prendeva la sua forza dal pugnale col serpente, non dall’ostia attaccata al palato della domenica a messa.
Mancavo da casa dei miei genitori da un po’. Ero uscito da galera da due giorni, ma mi ero preso un po’ di tempo per rendermi presentabile ai loro occhi. Dopo gli abbracci, i “come stai” e i “ma sei sempre più magro”, è stata una delle prime cose che mia madre mi ha detto. “Ah, sai chi è morto la settimana scorsa? Elpidio. Quello che faceva il bagnino alla piscina comunale, te lo ricordi?. Era diventato talmente grosso che nella cassa non ci stava. Ne hanno dovuta far arrivare una apposta per lui da Napoli. Gianlu’ ma hai capito Elpidio chi? Quello pieno di tatuaggi come a te”.

Mastro Tensione – Altri Lavori

Foto di Zelvia Aivlez (silviapetrianni@hotmail.it)

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