Questo racconto, che scrissi circa un anno fa, ha un approccio descrittivo più delucidante riguardo ai “Misteri” di Limbo. Si parla di Sawar, il malvagio Elenty che semina distruzione e morte, ma soprattutto si accenna per la prima volta al “mondo virtuale” creato dalla Rete di Hope, Limbo appunto. Il finale lascia forse un po’ in sospeso il lettore ma era l’effetto che volevo. Perché le storie, anche questa, si possono sempre riscrivere…
IL SEGRETO DEI DOWA
Guardavo il bambino giocare sul prato dietro al villaggio, un piccolo Arcon che rincorreva felice le farfalle. Si libravano sopra le gerbere e le margherite in volteggi precisi, un meraviglioso disegno del caso. Nonostante la visione fosse gradevole, non riuscivo ad ignorare quella sensazione d’artificiosità che trapelava da tutto ciò che mi circondava.
Nascosto al limitare del bosco, tra le rocce ricoperte di muschio e alcuni piccoli alberi di abete, osservavo curioso le vite di quella piccola comunità Arcon, una delle numerose famiglie nomadi di Limbo. Limbo, proprio lui. Quel mondo così ben congeniato, risultato di anni di lavoro e sacrifici, anche i miei. Quasi la memoria si confonde nei remoti inizi di tutto ciò.
Limbo, la giara della coscienza umana, l’eredità della fallimentare storia dell’uomo lasciata nella speranza di un futuro migliore. Ma che importanza aveva ormai tutto questo? Limbo era, nonostante la bizzarra verità che pochi conoscevano, un mondo fatto di uomini, donne, bambini e centinaia di altre creature. Ognuno padrone della sua storia, della sua vita e delle sue ragioni. Nessuno poteva negare questa evidenza.
Gli Arcon avevano gli stessi sentimenti degli Elenty, le stesse necessità. A differenza degli Arenty, possedevano una coscienza propria, ed erano liberi di perseguire qualsiasi scelta. Gli Arcon erano la nuova umanità in un mondo di codici ed impulsi elettrici.
Ma fino a quando sarebbe durato tutto ciò?
Una massiccia figura ammantata di grigio si avvicinò al bosco, attraversando con andatura decisa il verde prato fiorito. Trascinava dietro di se una pesante spada in un fodero rosso legato al fianco, e lunghi capelli corvini gli scendevano dietro la schiena ondeggiando al ritmo del suo passo.
“Tenero Lou, che meraviglia che sei!” pensò Trevor che lo osservava dal limitare del bosco. I due amici si conoscevano dal tempo in cui il robusto uomo delle praterie aveva salvato il mago da un gesto folle, un gesto che aveva il solo scopo di farla finita. Trevor fu tratto in salvo dalle forti braccia dell’Arcon, trascinato lontano da quel fuoco da lui stesso appiccato, in una notte che segnò indelebilmente i destini dei due uomini. Da allora non si erano mai separati.
«Andiamo!» esclamò sbrigativamente Lou, senza neanche rallentare il passo.
Trevor fece un movimento della mano e subito le due farfalle caddero nelle mani del bambino che giocava nel prato. Poi il mago si volse e seguì il suo amico nelle profondità del bosco.
«Come l’ha presa tua sorella?» domandò Trevor dopo qualche minuto, mentre i due procedevano speditamente sul sentiero che presto li avrebbe condotti fuori da quella fitta vegetazione.
«Bene.» Lou era di poche parole, ma i suoi gesti risoluti parlavano chiaramente.
«Le hai detto dove siamo diretti?»
«Vorrai scherzare!»
«E chi avvertirà Doom quando arriverà al villaggio?»
«Ci penserà Sander, il boscaiolo. Di lui ci possiamo fidare.»
Doom era un cacciatore Rednakes, un ottimo combattente che più di una volta aveva risposto al richiamo d’aiuto dei due amici. Trevor aveva lasciato un messaggio per lui dentro una Colonna delle Voci, i portali di comunicazione disseminati per Limbo che il Rednakes usava consultare regolarmente. Avrebbero dovuto trovarsi al villaggio tre giorni prima, ma il suo ritardo non li preoccupava più di tanto. Erano più che sicuri che il cacciatore dalle trecce rosse sarebbe venuto.
Attraversato il bosco i due discesero verso un ampio ruscello che gorgheggiava più a valle e iniziarono a seguire la corrente che procedeva veloce verso una fenditura nella roccia. Oltre quel canyon il paesaggio sarebbe di nuovo cambiato, aprendosi sulle pacifiche terre dei Dowa, l’armonioso popolo delle cascate. Era laggiù che i due erano diretti, con l’intenzione di proteggere quella pacifica gente dalla minaccia di Sawar, il Delirante Demolitore di Limbo.
Trevor aveva letto le stelle alla maniera degli Elenty, che conoscevano il passato ed erano in grado di attingere ai dati del grande disegno, in modo da predire a livello probabilistico il futuro. Sawar era un folle che portava avanti il suo piano distruttivo in modo apparentemente casuale, ma non era uno stupido. Sapeva che al momento le terre dei Dowa si trovavano più isolate del solito. Nessun altro Elenty sarebbe accorso a proteggere il popolo delle cascate.
Le tenebre li colsero d’improvviso dentro al canyon, una notte umida e senza luna che li spinse a cercare riparo dentro una delle grotte che si aprivano presso le sponde del ruscello. Trevor fece bruciare due quarzi che sporgevano dal muro, sussurrando un semplice incantesimo, mentre Lou preparava del pesce appena pescato. L’ottima birra del villaggio avrebbe annaffiato le loro gole. Prima di coricarsi i due parlarono malvolentieri del loro comune nemico.
«Sawar controllerà le sue belve dalla torre galleggiante e potrà starsene comodamente seduto a guardare la carneficina. Quello è il suo unico scopo, il solo appagamento di cui si possa compiacere.»
«Il tuo amico ha degli strani gusti.»
«Non ricordarmi la mia lontana amicizia con quell’immondo essere, caro Lou. Sai bene quello che penso di lui.»
Trevor guardava oltre il fuoco da lui stesso generato, alla ricerca delle lontane memorie di uomo, oltre quei codici binari che lo circondavano.
«Le tue storie da mago mi lasciano sempre indifferente, lo sai.»
«Per questo mi trovo bene in tua compagnia.»
«Non è per rendermi il favore che mi stai attaccato come una zecca?»
«Se alludi alla storia del fuoco, mi sembra che nessuno ti abbia chiesto di salvarmi la pelle…»
«Chissà cosa mi sarà passato per la testa. Gettarmi tra le fiamme a salvare uno stregone da quattro soldi…»
I due amavano punzecchiarsi con le parole; era un subdolo gioco a chi riusciva ad essere più maligno. In realtà, l’affinità che li univa era indistruttibile.
«Forse hai ragione te, diavolo di un Arcon. Alla fine che importanza ha la verità dietro questa nostra esistenza. Qualsiasi vita è degna di essere vissuta…»
«Tu vedi la verità come una maledizione, io la vedo come un dono. La mia verità è bellissima, e non può avere niente a che fare con le tue storie di mondi virtuali e coscienze artificiali. Come posso sentirmi artificiale se esisto e sono in grado di chiedermi se sono vero. Il pazzo che sa di essere pazzo non lo è…»
Lou non aveva mai proferito tante parole in una volta sola. Gli erano servite per centrare il punto. La verità appartiene a tutti, e non è mai una sola. Adesso Trevor riusciva a capirlo, ma Sawar non lo avrebbe mai accettato. Per questo continuava a distruggere Limbo, come un falco ingabbiato che sbatte stupidamente il becco contro le sbarre della sua prigione.
«Dormiamo adesso. Domani ci aspetta una giornata difficile.»
Ancora una volta Lou aveva ragione. Passando il palmo della mano sui quarzi ardenti, Trevor fece cadere l’oscurità, e subito un sonno leggero ma consolante li avvolse entrambi.
Il mattino era velato da una nebbia sottile che nascondeva le insidie rocciose del canyon. Trevor e Lou procedevano con cautela attraverso gli anfratti che a breve li avrebbero condotti ai territori dei Dowa. Già in lontananza si avvertiva il suono delle cascate di quel magico luogo che periodicamente faceva la sua apparizione alla fine di ogni ciclo. La dimora di quel pacifico popolo infatti, a differenza di ogni altro territorio di Limbo che era destinato ad un’unica esistenza, sorgeva ogni volta dopo la sua cancellazione.
Quando finalmente la nebbia si dissipò e il sole del terzo margine illuminò il canyon, i due videro il paesaggio aprirsi. Il ruscello era diventato un fiume che procedeva veloce verso le cascate, e le pareti di roccia che si innalzavano ai lati si erano come sgretolate in declivi di grandi e piccole pietre, che scomparivano dentro una giovane vegetazione.
Giunti al bordo del dirupo, dove l’acqua si gettava in uno scroscio perpetuo, i due osservarono la distesa boscosa che si estendeva fin dove poteva lo sguardo. Il rumore delle cascate offuscava ogni altra sensazione.
«Come ci arriviamo laggiù?» domandò Trevor al compagno.
«C’è un sentiero oltre quegli alberi.» Lou indicava un punto non ben definito alla loro destra. «Non è una strada facile… ma non ci sono altri modi.»
«Beh, questo lo dici tu!»
Detto ciò il mago proferì alcune parole tracciando dei segni sopra il fiume. Si udì il tipico crepitio che precedeva la distorsione della realtà, quella pratica che gli Arcon denominavano magia. Sulla superficie dell’acqua si formò un disco immobile e scuro. Trevor mosse un passo sopra quella macchia di acqua ferma che lo risucchiò all’istante.
Lou osservò quella stregoneria con un’espressione di disgusto, poi si avviò verso gli alberi oltre i quali doveva trovarsi il passaggio. I due si rincontrarono in fondo a quella prima cascata, e insieme continuarono a discendere il sentiero che si era fatto più agevole, seguendo ancora il fiume che zampillava tra rapide e cascatelle.
Stava incominciando il settimo margine quando Trevor udì i primi canti. S’innalzavano delicatamente sopra il rumore delle cascate, amalgamando i due suoni in una sorta di sinfonia della natura. L’idioma parlato dai Dowa era un incrocio tra il comune Sint ed il Bit, la lingua degli stregoni. Non a caso era un popolo considerato magico, ma il modo in cui i Dowa alteravano la realtà era molto cauto. Usavano la magia per ricreare l’equilibrio, trasformando senza mai aggiungere o sottrarre.
«Siamo vicini» sussurrò Trevor all’amico. Lou annuì.
Poi la foresta si dischiuse rivelando il salto nel vuoto, e il rumore delle cascate divenne impetuoso. Il canto proveniva da molti metri più sotto. Guardando oltre il baratro i due uomini scorsero la meraviglia, e rimasero immobili in ossequioso silenzio, e il tempo sembrò fermarsi. In quel punto il fiume si era allargato, diramandosi in tre differenti corsi che rifluivano con un salto di oltre trenta metri in un bacino d’acqua verde smeraldo. Affioravano delle rocce in mezzo allo specchio d’acqua e sopra di queste si trovavano tre figure vagamente umane, glabre e sottili, di carnagione cenerina e con occhi obliqui scuri come la notte. I loro volti, rivolti all’insù, erano deformati dal canto; bocche aperte di forma ovale e prive di labbra sotto due minuscoli orifizi nasali. Trevor sapeva che gli altri se ne stavano appostati sotto gli alberi, intorno al bacino, ad ascoltare il canto magico. Erano i Dowa, la comunità Arcon più stupefacente di Limbo, un vero capolavoro di esistenza fittizia.
Martin Saymour Downson, il loro creatore, non era un semplice programmatore. Si definiva un artista dell’AI. Lavorò per la Rete di Hope solamente il tempo necessario per sviluppare il progetto Dowa. Trevor ricordava bene quell’uomo. Lui stesso ci aveva lavorato insieme in un paio di occasioni. Lasciò il programma “Limbo” molto prima della sua entrata in funzione. La Rete non seppe mai dove fosse finito. Qualcuno ipotizzò che fosse “sparito” nella maniera in cui la gente spariva a quei tempi, scaricandosi un doppione dentro uno scenario virtuale e dando in pasto a i coccodrilli il proprio corpo. L’immortalità binaria.
Mentre pensava a tutto questo, attingendo alle cartelle di memoria sigillate nel profondo della sua entità elettronica, Trevor si accorse che il suo compagno si era già incamminato lungo il sentiero che discendeva le cascate. L’Elenty si affrettò a seguirlo, movendosi silenziosamente per non disturbare il rituale in corso.
I due amici si arrestarono a un centinaio di passi dello specchio d’acqua, dentro la folta vegetazione. Da quella posizione erano in grado di vedere gli altri membri della comunità, una cinquantina in tutto, riuniti attorno al bacino. Rimasero in attesa della fine del rituale. Il canto si alzò di almeno tre ottave, scomparendo in vibrazioni che l’udito dei normali Arcon non erano in grado di percepire. Il canto continuò nel silenzio apparente della foresta, sovrastato dallo scrosciare delle cascate. Poi finalmente le bocche ovali delle tre creature si rilassarono, e un inchino chiuse lo spettacolo. Trevor ebbe la sensazione che quel gesto fosse rivolto a loro. Sapevano della loro venuta, perché erano amici degli animali del bosco, e probabilmente erano stati loro ad avvertirli. Ma non avrebbero potuto sapere dei piani di Sawar. La Torre Galleggiante poteva apparire dal nulla, attraversando le fenditure dello spazio-disco. Le belve si sarebbero rovesciate nella foresta, dilaniando qualsiasi cosa li si fosse parata davanti. L’Elenty corrotto avrebbe goduto le scene di morte e distruzione dalla guglia più alta della sua assurda magione. Fino all’ultimo urlo di dolore…
Trevor non aveva ancora idea di come lui e i suoi due compagni, sempre che Doom fosse riuscito a raggiungerli in tempo, sarebbero riusciti a respingere l’armata dell’Elenty folle. Forse era tutto inutile. Forse non c’era scampo né per il popolo delle cascate né per loro tre. La magia dei Dowa era forte e se avessero unito gli sforzi forse sarebbero stati capaci di contrastare i poteri di Sawar, ma c’erano anche Ekaron e Davinia, gli scellerati compagni del Demolitore; Elenty immortali come lui, abili stregoni, entità inappagate prigioniere di un gioco di impulsi.
Le figure longilinee si avvicinarono ai due stranieri, movendosi con apparente lentezza ed estrema sicurezza. Camminavano in modo molto particolare, precisi nei loro gesti, come se cercassero di non disturbare la vegetazione che li circondava. I Dowa non rispondevano ad un capo. Non esisteva alcuna gerarchia all’interno della comunità. Insieme erano come un’unica coscienza, un organismo formato da molte unità. Tre elementi si fecero in avanti. Era il loro modo di comunicare, attraverso tre voci distinte che catalizzavano il pensiero comune.
«Benvenuti…» disse uno, inchinandosi.
«…riposate il cuore e la mente…» aggiunse un altro, toccandosi prima il petto e poi la fronte.
«…i Dowa si prenderanno cura di voi.» concluse il terzo, allargando le braccia in un gesto di benvenuto.
Poi i due vennero scortati per un sentiero che aggirava il bacino e conduceva ad un’ampia radura inondata di sole. Vi passava vicino il fiume, che dopo essersi tuffato dalle cascate, riprendeva il suo viaggio verso il mare. Fu acceso un fuoco e vennero stese alcune tovaglie. Era l’inizio della festa di benvenuto.
Trevor cercava il momento opportuno per affrontare l’argomento. Il paesaggio ispirava un senso di abbandono irresistibile, e non era facile rimanere concentrati sui propri doveri. Che la magia dei Dowa irretisse gli ospiti era una cosa risaputa, anche se faceva parte della leggenda del popolo delle cascate. Perché molti infatti non vi credevano. I Testimoni di Seidon ad esempio, religiosi votati alla causa del Dio degli Arcon, ne negavano l’esistenza a causa della loro natura magica. Per i religiosi infatti ogni forma di magia era da considerarsi irrispettosa nei confronti del grande Seidon, poiché alimentava le credenze sui Misteri, leggende Arcon che interpretavano la storia di Limbo nel modo in cui gli stessi Arcon erano capaci di percepirla. Per i Testimoni invece la storia di Limbo era ben altra cosa, e assomigliava molto alle favole che si raccontano ai bambini prima di andare a letto.
I pensieri di Trevor vennero interrotti dalla voce di Lou. Sedevano entrambi davanti ad una ciotola ricolma di frutti di bosco, more e fragole selvagge. Alcuni Dowa avevano rincominciato a cantare, accompagnati dal suono delle vicine cascate.
«Non è facile parlare con questa gente» osservò l’Arcon. «Non hanno un capo…»
«Non ne hanno bisogno. È incredibile l’armonia che riescono a comunicare. Hai ragione, non è facile portare loro cattive notizie» ammise Trevor.
Alcuni erano impegnati in una strana danza che poteva meglio definirsi come una serie di elastici movimenti del corpo. La musica non aveva ritmo, era un susseguirsi di onde vocali che comunicavano il viaggio interiore, l’equilibrio cosmico, l’appartenenza con il tutto. Trevor tornò a pensare a Martin Downson. Quell’uomo doveva essere stato proprio un artista…
Finalmente si decise ad alzarsi e a parlare. I Dowa non sembravano sorpresi. Dettero all’Elenty lo spazio di cui aveva bisogno per esprimersi. Le danze terminarono, la musica sfumò nel rumore delle cascate, e lentamente tutti gli appartenenti alla comunità si volsero verso di lui. Erano pronti ad ascoltarlo. Trevor rimase nuovamente meravigliato dalla forza empatica di quel popolo.
«Per prima cosa vorrei ringraziarvi della vostra ospitalità, semplicemente straordinaria, ma purtroppo la nostra venuta non è di piacere, anche se voi la state trasformando in un’esperienza meravigliosa. Un pericolo incombe sulla vostra comunità. È da molto tempo ormai che Sawar, il Delirante Demolitore di Limbo, cova il desiderio di annientarvi. Il motivo è da ricercare nella sua follia. Egli non ha nessuna altra aspirazione che quella di distruggere Limbo, un po’ alla volta, Arcon, Arenty, montagne, foreste, fiumi. Tutto quello che passa vicino alla sua orribile Torre Galleggiante.» Trevor fece una pausa. Si guardò intorno studiando i volti dei suoi ascoltatori. Avevano espressioni impassibili, all’apparenza serene. Continuò.
«Ma il vostro popolo è forse quello che odia di più. È la vostra armonia, la vostra magia innata che egli non tollera, e forse ancora di più le vostre cascate incantate, che tornano puntualmente ad ogni ciclo. In passato gli Elenty immortali vi hanno protetto, ma purtroppo adesso quei pochi che sono rimasti si trovano molto lontano. Sawar irromperà nella foresta d’improvviso, e niente e nessuno potrà fermarlo. Dovete nascondervi, lasciare le cascate e trovare un posto sicuro, altrimenti non avrete scampo.» Trevor pronunciò quelle ultime parole facendo un grande sforzo di volontà. Quando si rimise a sedere sentì che si era liberato di un peso, ma un vuoto gli si era aperto da qualche parte dentro.
Allora tre creature si alzarono e risposero all’avvertimento. L’Elenty intuiva già quello che stavano per dire. Non avrebbero mai lasciato le cascate…
«Siamo immensamente felici di avervi potuto ospitare. Questo luogo è anche vostro. Non ci appartiene, ma non potremo mai vivere senza. Per questo motivo è l’unico territorio che torna sempre, anche dopo che si è dissolto oltre il sole rosso. I Dowa non avrebbero ragione di esistere senza le loro cascate. Per questo non possiamo abbandonarle. Se saranno distrutte, noi scompariremo insieme a loro.» Avevano parlato insieme, segno che tutta la comunità pensava la medesima cosa.
«Allora rimarremo qui insieme a voi e cercheremo di contrastare il folle. Presto un caro amico si unirà a noi. Il suo nome è Doom, è un guerriero molto abile. Non abbiamo molte possibilità, ma non vi abbandoneremo.» Questa volta era stato Lou a parlare.
I Dowa rincominciarono a cantare. Vennero portate altre ciotole ricolme di frutta e l’ombra di Sawar sembrò dissolversi negli animi dei presenti. Si stava per chiudere il settimo margine quando le tovaglie vennero ripiegate e la comunità si ritirò nelle grotte dietro le cascate. Laggiù era semplicemente meraviglioso; cunicoli, anfratti e alte volte di roccia calcarea rischiarate dalla magia di centinaia di cristalli, disseminati un po’ ovunque. Le caverne si diramavano dentro la pietra creando numerose cavità che i Dowa avevano allestito a giacigli. Trevor e Lou vennero accompagnati ai rispettivi letti. Venne detto loro di dormire tranquilli, perché c’erano sempre delle guardie all’entrata delle grotte, e se fosse successo qualcosa sarebbero stati avvertiti. I due si abbandonarono volentieri al sonno ristoratore delle caverne. La luminosità dei cristalli venne smorzata, ma questi continuavano ad emanare calore. La temperatura era eccellente, i canti proseguivano in sottofondo. Trevor si abbandonò al più sereno dei sonni, e poco importava a quel punto se anche fosse stato l’ultimo.
La mattina dopo arrivò Doom. Il guerriero dalle lunghe trecce cremisi fece il suo ingresso nelle grotte accompagnato da due guardie Dowa. Venivano chiamate guardie, ma non c’era niente che le differenziava dagli altri. Non portavano né armi né armature. L’unico oggetto in loro possesso era un piccolo bastone ricurvo, apparentemente innocuo. Incanalava la magia della foresta e la forza delle cascate proiettando un fascio di luce azzurra che paralizzava temporaneamente la vittima. Era l’unica arma adottata dai Dowa, forse il più pacifico popolo Arcon di tutta Limbo.
Doom abbracciò i due amici e si sedette con loro a consumare una colazione a base di bacche di bosco ed infuso di erbe aromatiche. Trevor e Lou erano felicissimi di vederlo. Lo aggiornarono sugli ultimi eventi e insieme decisero di impegnare la mattinata in un accurato sopraluogo della foresta attorno alle cascate. Secondo le intuizioni profetiche dell’Elenty, Sawar poteva apparire da un momento all’altro. Se avessero conosciuto il luogo esatto in cui la Torre Galleggiante sarebbe apparsa, avrebbero potuto organizzare una strategia difensiva.
«Avrà bisogno di uno spazio ampio per fare apparire la torre» osservò Lou.
«È vero, ma potrebbe aprire una fenditura sopra la foresta e poi decidere di atterrare dove meglio crede. Le sue belve abitano le grotte di granito che si aprano nella parte inferiore dell’isola galleggiante. Potrebbe anche non decidere di atterrare e avvicinarsi quel tanto per sguinzagliare i suoi mostri…» considerò Trevor. Conosceva bene il suo nemico e sapeva che l’imprevedibilità era una delle sue armi migliori.
«E allora è tutto inutile…» stabilì Doom, sconsolato.
«No, è necessario conoscere il territorio nei minimi dettagli se vogliamo organizzare una qualche tattica difensiva» stabilì l’Elenty. E detto ciò si alzarono ed uscirono insieme dalle grotte.
Il cielo era limpido, la temperatura piacevole. Non era la giornata ideale per combattere. Nessuna giornata era ideale per combattere, pensò Trevor. Limbo necessitava di un equilibrio. Non era un mondo perfetto e forse era meglio così, ma gli uomini, Arcon ed Elenty, continuavano a sperare che potesse esistere un mondo perfetto, un’oasi di pace eterna. Forse lo erano le cascate dei Dowa. Forse Martin era riuscito dove gli altri programmatori non erano mai arrivati. Aveva creato un isola di pace all’interno di un universo complesso che si fondava sul bilanciamento tra il bene ed il male. Trevor non voleva pensarci. Prendeva la vita come veniva, e dal giorno in cui Lou lo aveva tratto in salvo dalle fiamme aveva rinunciato a trovare le risposte ai quesiti di Limbo. Non ci voleva pensare e si sforzò di non farlo.
Oltrepassarono la polla d’acqua e proseguirono lungo il fiume che procedeva verso la valle più sotto. La foresta era fitta e non sembrava ci fossero altre zone aperte oltre a quella in cui era stata celebrata la festa di benvenuto. Risalirono il fiume e si fermarono presso la radura.
«Potrebbe apparire qui» dichiarò Trevor.
«Siamo molto vicini alle cascate. Non avremo sufficiente spazio per creare delle barricate…» osservò Doom.
«È vero» annuì Lou.
L’esplosione li colse impreparati. “No, non così…” pensò Trevor, maledicendo la sua stupidità. Sawar aveva molti mezzi per crearsi una pista di atterraggio.
«È qui!» disse.
I tre incominciarono a correre seguendo il fumo che si alzava da oltre le cascate. Nel cielo non vi era ancora traccia dell’isola volante. Centinaia di uccelli impauriti presero il volo starnazzando. I Dowa si riversarono fuori dalle caverne per andare a vedere quello che stava succedendo. Poi un raggio di luce azzurra, apparso improvvisamente dal cielo, incendiò altri alberi. Il bosco bruciava rapidamente, come se il fuoco di cui era preda avesse proprietà alterate.
Le due esplosioni avevano creato uno squarcio nella foresta del diametro di una cinquantina di passi. Quando i tre riuscirono a raggiungere il luogo dell’incendio, il fuoco era ormai quasi spento e della vegetazione che vi cresceva fino a pochi attimi prima non era rimasto più niente. Fu allora che l’assurda Torre Galleggiante apparve nel cielo. Nera come la più cattiva delle notti, un blocco di pietra sfaccettata piena di cavità sopra il quale spiccavano sei torri ed un mastio centrale. Dalla finestra del torrione un uomo dal volto scarno e gli occhi spiritati rideva a squarciagola. Il suo nome era Sawar, ma molti lo chiamavano il Delirante Demolitore di Limbo.
Trevor piantò i piedi a terra e iniziò a roteare le braccia. Non c’era tempo da perdere, se voleva avere un minimo di possibilità per usare al meglio le conoscenze magiche di cui disponeva, doveva agire subito. I suoi compagni gli si piazzarono di fronte, armi in pugno. Lou strinse con forza il suo enorme spadone, mentre Doom estrasse i suoi pugnali ricurvi, tipici dei Rednakes. Poi, dalle cavità sotto la torre, fuoriuscirono le creature.
Si riversarono sul terreno bruciato a centinaia, nodosi corpi di lupi e di orsi deformi, dai lunghi musi digrignanti. Erano fatti di pietra e di gesso, privi di anima ma animati, figli della follia del loro padrone. In un mondo remoto potevano chiamarsi golem oppure gargoyle, ma in Limbo erano semplicemente le Belve di Sawar. Solo il ferro intinto in un bagno magico era capace di schiantare la pietra animata. Doom e Lou lo sapevano bene e per questo motivo le loro armi erano state trattate dagli stregoni.
I Dowa si erano portati alle spalle dei tre. Tenevano puntati i loro bastoni incantati, pronti a tramortire le belve. Ma queste erano davvero troppe, pensò Lou. Non avevano nessuna possibilità.
Pochi balzi e lo scontro ebbe inizio. Doom si muoveva come un felino, piroettava tra le creature come se stesse danzando, e intanto affettava pezzi di pietra. Lou invece schiantava le belve con colpi precisi e poderosi. I due Arcon erano un muro invalicabile davanti all’amico Elenty. Ma i nemici erano troppi e in poco tempo riuscirono ad aggirarli.
I raggi sprigionati dai bastoni dei Dowa abbattevano le creature, ma l’incantesimo non sortiva gli effetti sperati. I golem si rialzavano dopo pochi istanti, di nuovo pronti a gettarsi sulle loro prede. Il popolo magico arretrò verso le cascate, e le prime file incominciarono a cadere. La battaglia sarebbe durata molto meno del previsto.
Poi finalmente Trevor completò l’incantesimo. Era un disegno complesso che s’infiltrava fino alle profondità della matrice, sovvertendo le proprietà degli stessi elementi. Una voragine si aprì sotto l’orda in avvicinamento, fauci di terra e radici divorarono e inghiottirono decine di creature. Sawar non rideva più dall’alto della sua torre. Distese allora il palmo della mano in direzione dell’Elenty e scagliò il fuoco magico. La palla di fuoco esplose davanti a Trevor e ai due Arcon, in un’effusione di ori e di cremisi. Il calore divenne insopportabile e le tenebre li ghermirono. Era la fine, pensò l’Elenty. Dopotutto era stato il fuoco a reclamare la sua vita.
Quando riaprì gli occhi sentì il dolore e il puzzo della carne bruciata. Era la sua e non solo. Accanto a lui giacevano Lou e Doom, anch’essi feriti ma vivi. Erano entrambi ancora privi di sensi. Non erano più all’aperto ma nelle grotte dietro le cascate. I Dowa li avevano trascinati là dentro e adesso cercavano di difendere con tutte le loro forze la loro dimora. Ma le belve avrebbero presto conquistato l’entrata delle caverne, ed allora non ci sarebbe stato più scampo.
Trevor fece uno sforzo enorme per riuscire a mettersi a sedere. Provò ad attingere alle sue ultime energie. Forse poteva ancora fare qualcosa, ma scoprì presto che non gli era possibile. Fu in quell’istante che udì un suono. Lo riconobbe subito; era il canto dei Dowa. Proveniva dalle profondità delle caverne, dentro cunicoli che non era ancora riuscito a visitare. Un corridoio sprofondava nella nuda roccia, rischiarato appena dai cristalli incantati. Trevor si alzò gemendo e si avviò verso quel suono. Il richiamo era irresistibile.
Mentre percorreva il corridoio il canto divenne ancora più definibile. C’era un che di solenne nella melodia, ma anche il ritmo cadenzato e ripetitivo tipico di alcuni incantesimi. Tre, quattro, forse addirittura cinque voci si rincorrevano sulle totalità basse. E poi vi era un cantante solista che afferrava le melodie più alte.
Il corridoio si aprì su una piccola caverna tempestata di cristalli. Sette creature piccole e longilinee si tenevano per mano, formando un cerchio attorno ad un unico grande quarzo che spuntava dal pavimento. Il canto inondava la grotta. Trevor non riusciva neanche più a sentire i rumori della battaglia.
Poi nel quarzo apparve un’ombra. In principio era solo un volto scuro, privo di lineamenti, la silhouette di una testa. Ma mentre il canto si alzava di un’altra tonalità, la faccia incominciò a rischiararsi, dal basso verso l’alto. Prima il mento, poi la bocca e infine gli occhi. Trevor trattenne il respiro. Era il volto di Martin Saymour Downson.
«Figli miei, mi avete chiamato?» chiese l’ombra apparsa dentro al quarzo.
«Siamo in pericolo, signore. Le cascate verranno distrutte. I Dowa stanno per lasciare Limbo» rispose uno dei sette.
«Non preoccupatevi, non lascerete Limbo. Le storie, amici miei, si possono sempre riscrivere…»
Trevor sbatté gli occhi. Era in piedi nella radura del benvenuto, le tovaglie distese cosparse di ciotole piene di frutta, Lou seduto accanto a lui, i Dowa in attesa di sentire quello che aveva da dire. Le cascate rifluivano poco distanti in suoni argentini. Sawar era un sogno, forse…
Che diavolo è successo, pensò. Poi ricordò il quarzo e le parole di Martin: “Le storie si possono sempre riscrivere…” E allora capì. Si schiarì la voce e incominciò.
«Vi ringraziamo immensamente per la vostra ospitalità…»