BIRRA O CASETTA IN CANADA

“Ecco, vai là e scrivi” mi dice mia moglie, come se potesse servire a qualcosa, che io manco ci riesco a mettere una parola dietro l’altra senza fare errori. Però è convinta che mi faccia bene, che in questa maniera possa schiarirmi un po’ le idee. “Forse non riuscirai a risolvere i tuoi problemi, ma quando avrai scritto tutto quello che senti almeno scoprirai che cos’è che non va!” Ma io lo so cosa non va… Non sono io che non funziono, è la maledetta strada…
Sono nato trentacinque anni fa nell’ignoranza, tra le urla di mia madre che dal pianerottolo inveiva contro mio padre, buono a nulla ma non poco di buono. Mio padre era un tipo docile, che però faceva sempre i cazzi sua, di conseguenza la famiglia veniva al tredicesimo-quattordicesimo posto. Mia sorella era più grande di me di sette anni. Si levò dai coglioni al tempo giusto e adesso inveisce dal pianerottolo contro Enzo, suo marito, perché la vita t’infinocchia in questo modo, col gioco della ruota. Tutto torna come prima, se non dai un bello strattone…
La scuola è stata traumatica. La scuola andrebbe vietata ai minori di ventun anni. È qualcosa di devastante, dalla sveglia la mattina che ti rapisce dal tepore delle coperte e dai sogni bagnati di fanciullo, all’entrata in classe con le gelide sferzate dei soliti bulli, e poi le occhiate alle ragazze che bisbigliano alle tue spalle e t’immagini chissà quali nefandezze sul tuo conto stiano pensando, fino alla traumatica interrogazione alla cattedra, durante la quale il professore gode del piacere di esserti sopra, in posizione erotica, un caprone col membro duro e rosso che sta per infilzare il tenero culetto dello studente. La scuola ti fa perdere la verginità, non quella sessuale ma quella dell’anima. Insomma, la scuola non si può dire che mi sia piaciuta, e per questo abbandonai i sogni di medico alla terza liceo. Nessun rimpianto. Se vedo i medici che ci sono a giro, schiavetti delle multinazionali farmaceutiche, non posso che ritenermi fortunato. Però l’altra opzione era il ristorante dei miei, e ciò voleva dire turni sfiancanti e domeniche col grembiule, e non insieme agli amici in campagna o magari al mare. Mi accorsi ben presto di aver scelto la strada meno agevole, ma che ci volete fare. Non che non mi avessero avvertito, ma a quell’età non capisci una sega e pensi che sia tutta discesa. Beh, finché hai la forza dei vent’anni tutto in effetti sembra filare liscio, anche quando dormi un paio d’ore a notte e ti sballi fino all’alba. Lo sballo, appunto, uno dei miei problemi. Inutile che ci giri intorno, se proprio devo scrivere di me sarà meglio affrontare subito l’argomento “alcol”.
Il problema è che sono assolutamente convinto che l’alcol faccia bene. Non sto scherzando. A me mette benissimo, e adesso penserete male… Ma no, non nel senso dello sballo in sé. Conosco un fottio di gente che con due birre in corpo mettono a soqquadro la casa, picchiano gli amici, urlano alla compagna… Io invece più bevo e più sto tranquillo. Un bonomo… Un bonomo brillo… Però si arriva a trent’anni con la pancetta e i fumi del dopo sbornia che ti rimescolano le carte della vita, ti svegli dopo l’ennesima notte brava e ti chiedi quanto ti resti, quanto ancora puoi andare avanti così. Son domande del cazzo, che fanno troppo male, e allora ti accendi un cicchino e non ci pensi più. Vai a lavoro, il solito ristorante, e in Italia ti devi ritenere fortunato se lavori dieci ore il giorno metà delle quali a nero, sei giorni su sette… caffè, convenevoli con i colleghi, solito tram tram fino a pranzo e poi s’incomincia col primo mezzino. Da lì in poi tutto diventa sfumato, semplice, tranquillo, e fatevelo dire in tutta sincerità… sbagliato!
Ma forse non è neanche questo il vero problema perché, come vi dicevo all’inizio, ciò che non funziona nella mia vita è quello che si trova fuori da quella porta, sui luridi marciapiedi della città. La strada… L’ho sempre odiata, anche se ci sono praticamente cresciuto nel mezzo. La strada ti vuole duro, cazzuto, impassibile alle emozioni degli altri, dritto sulla schiena, lo sguardo puntato avanti, il pugno chiuso e pronto a scattare. La strada è il ceppo dell’anima. Ti tiene ancorato a terra, si insinua nelle tue vene, provocandoti prima dolore e poi dipendenza. Quand’ero giovane amavo le gite al mare con gli amici, oppure a volte andavamo a fare trekking, che io duravo poco per via delle sigarette ma comunque mi divertivo da matti. Ricordo che adoravo quei posti desolati, quelle distese sconfinate, la natura, il cielo, i profumi. Sognavo una casa in campagna dove dare le feste, ritrovarsi, ridere e bere con gli amici. Col tempo abbiamo smesso di fare queste gite, ognuno preso dai suoi interessi e dal lavoro. Oggi non riuscirei a star lontano dalla città per più di un fine settimana. È come se ne avessi bisogno, se sentissi il richiamo della strada, della dose giornaliera di cemento e ferro, di benzene e grigiore, di caos e disperazione. Perché sono questi gli odori che si percepiscono nelle strade della città, eppure ne siamo attratti, ne sentiamo il bisogno. Sapete quale è il nome per quella cosa che ti fa stare male ma non ne puoi fare a meno, no? Ok, cara mogliettina, ho scoperto qual’è la mia droga. Che facciamo adesso? Traslochiamo e tentiamo di recuperare questa maledetta carcassa d’uomo?
Cinzia la conobbi per vie traverse. Era l’ex ragazza di un vecchio compagno di scuola che beccai per caso in un locale del centro. Lei era lì con lui ma già non stavano più insieme. Ci sedemmo a parlare, in principio temevo che fosse scorretto darle toppe attenzioni, ma mi piacque fin dal primo sguardo. L’amico capì la situazione e ci lasciò da soli. Il resto son storie di intese, passioni, interessi in comune, progetti, traguardi e futili contratti matrimoniali. Cinzia è la cosa più bella che mi sia capitata, e forse se me lo chiedesse potrei anche pensarci di mollare tutto per la fantomatica casetta in Canada, ma so che non lo farebbe mai perché lei mi conosce bene e sa che è meglio evitare di trovarsi in debito nei miei confronti. Si, anche per questo sono un bastardo. È un talento malignamente sublime quello di far sentire in colpa chi ti ama, ed io quest’arte la pratico ad occhi chiusi, in scioltezza, completamente ignaro dei suoi effetti collaterali.
Cazzo, come è vero quello che ho appena scritto. Ci starebbe bene una birra adesso, tanto per non pensarci. Tanto per non rileggermi. Perché tutto si decide al bivio, anche quello apparentemente più innocuo… Birra o casetta in Canada?
E se le proponessi di andarcene con la bottiglia in mano, che ne pensate?

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3 risposte a “BIRRA O CASETTA IN CANADA

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