di GM Willo
Melvin era un bastardo, ma io l’amavo e l’avrei seguito finanche alle porte dell’inferno. Forse fu proprio là che lo trovai, persa in uno strano sogno o più probabilmente tra le spire del Vortice…
Ne aveva tante come me, ma nessuna era come me. Adesso penserete che sia l’ennesima disillusa, ma vi assicuro che non è così, e anche se fosse, che cazzo ve ne frega a voi… l’amore è l’amore, e quello che provavo e continuo a provare per Melvin è Amore con la “A” maiuscola. Perché io ero la “Sua Desy”… usava sempre il possessivo quando si riferiva a me, invece le altre le chiamava solo per nome.
Erano passati due mesi dall’ultimo concerto degli Azazel’s Eyes e di Melvin non si sapeva più nulla. Il ricordo dei suoi baci mi tormentava in quelle piovose serate d’autunno. La sera prima del fatidico concerto in cui dette l’addio, facendo schiumare di rabbia i dirigenti e gli azionisti della Music Dome, si dedicò totalmente a me. Non mi disse niente dei suoi piani, ma lo capii al volo che c’era qualcosa che non andava. Tra le lenzuola di seta del suo letto mi amò più volte, ma lo sentivo lontano, distratto, preoccupato… Gli allungai un paio di pasticche ma lui le rifiutò senza esitare. Doveva stare pulito, mi disse. Quando mi svegliai la mattina dopo lui se n’era già andato. In quel momento seppi che non l’avrei mai più rivisto, almeno non in questo mondo…
Nelle due settimane successive ebbi i miei problemi. Gli scagnozzi della Music Dome vennero a cercarmi perché sapevano che ero una delle sue ragazze, forse la più intima. Dissi loro di andare a farsi fottere, ma mi resi subito conto che era la risposta sbagliata. Con certa gente è bene non fare i duri… Dissi quello che sapevo, cioè nulla, e dopo avermi somministrato una sostanziosa dose di schiaffi mi lasciarono andare. Passarono altre due settimane in cui vagai come un fantasma di raduno in raduno, di concerto in concerto, vittima di una serie di mood-swings dovuti ad un uso improprio degli acidi… nessuno sapeva niente di Melvin. Incontrai Logan, il cantante degli Azazel, ma stava peggio di me. Anche lui non aveva la minima idea di dove si trovasse il chitarrista più famoso di Rock City.
Era il 19 novembre, una serata balorda come molte altre, quando il telefono squillò destandomi da un incubo chimico. Era Gwendy, o come la chiamavano tutti, Gwendaline la Matta, matta perché non aveva paura di niente, neanche del diavolo, anzi… C’era chi diceva che avesse fatto un patto con lui, che se lo fosse scopato come si era scopata tutti i più grandi musicisti apparsi a Rock City negli ultimi vent’anni, e che in cambio avesse ricevuto il segreto dell’eterna giovinezza. In effetti Gwendy poteva avere venti oppure cinquant’anni. C’era chi la conosceva da una vita, eppure la sua chioma rimaneva folta e dorata, e neanche una ruga solcava il suo bel viso. I suoi occhi invece la raccontavano lunga… ne avevano viste di cose nella città del diavolo.
“Ciao Desy, il tuo uomo ti cerca…” mi disse dall’altro capo della linea.
“Che cazzo dici Gwendy?” le chiesi di rimando, perché ero in botta e non le credevo.
“Vediamoci tra due ore al Fusion, dietro il locale di Vic. Sai dov’è?”
“Certo, ma se mi stai prendendo per il culo…” click. Aveva già riattaccato.
Ero là ad attenderla mezz’ora prima dell’appuntamento. Le sigarette non riuscivano a calmarmi. Infilai la mani nella tasca della giacca e afferrai due quadrettini blu che mi aveva allungato Berto, il mio sciamano di fiducia. Diceva che facevano calmare, ma forse era meglio non mischiarle con la robaccia che mi ero fatta poche ore prima. Li lasciai ricadere nella tasca e mi accesi un’altra cicca. Poi arrivò lei.
Difficile parlarne male, almeno dal punto di vista fisico. Indossava un paio di jeans elasticizzati e una finta pelliccia di volpe. I capelli li teneva legati sulla testa, come voleva la moda del momento, così da dare risalto agli occhi di cerbiatta e al sottile disegno del rossetto. Insieme a lei c’erano due adepte… insieme avranno avuto non più di trent’anni.
“Ciao Desy, hai una brutta cera… che ti è successo?” chiese lei ironica.
“Non sono qui per fare conversazione, Gwendy… Cos’è questa storia? Sai dove si trova Melvin?”
“Più o meno…”
“Allora dimmi dov’è!” la incalzai, facendo fatica a non saltarle addosso e a strapparle con le mani i suoi maledetti segreti.
“Beh, per prima cosa ho bisogno di sapere quanto desideri vederlo…”
“Che cavolo dici… Non lo vedi come sono ridotta? Se non lo vedo muoio…”
“Ci sono cose più terribili della morte, sorella…” Insieme a quelle strane parole Gwendaline la Matta mi regalò un macabro sorriso. La bocca piena di rossetto le si aprì come una ferita inferta da un rasoio.
“Basta stupidaggini! Portami da lui” le dissi, chiudendo una volta per tutte quell’assurda conversazione. Lei girò sui tacchi e mi chiese di seguirla.
Camminammo per un po’ tra gli stretti vicoli della città vecchia. Il Fusion, locale underground ma di proprietà della Dream Records, sorgeva poco distante dalla cattedrale e segnava l’inizio di Melody Road, una strada immaginaria che, passando attraverso i principali templi del rock della città, segnava il pellegrinaggio quotidiano del popolo della musica. Ma la città vecchia era in qualche modo distaccata dal grande business musicale di Rock City. Laggiù potevi ancora mangiare in un ristornate non di proprietà delle major, oppure guardarti un film in un cinema d’essai.
D’un tratto le tre donne che mi precedevano svoltarono in un vicolo se possibile ancora più angusto. C’erano delle scale che sprofondavano nell’oscurità, e una porta di legno senza insegne.
“Dove mi portate? Io non ci vengo laggiù…” dissi io, fermandomi all’entrata del vicolo.
“Tranquilla bambola… Sei al sicuro con noi…” cercò di tranquillizzarmi Gwendy, e ci riuscì. Non so come ma ci riuscì. In fondo cos’è che avevo da perdere, mi chiesi. E così, che lo crediate oppure no, scesi lentamente quelli scalini che mi avrebbero condotta dentro il covo del diavolo.
Gwendaline estrasse dalla sua borsetta rosa una vecchia chiave e dette due mandate alla porta, che si aprì con un cigolio. Dentro era buio pesto, ma lei lo scacciò con una torcia elettrica. Lentamente scivolammo in un corridoio stretto e umido. “Fa freddo qui…” mi lamentai.
“Vedrai che tra un po’ ti scaldi…” rispose seccamente la mia guida, e le ragazzine risero come a una battuta, ma io non ci trovai niente di divertente.
Il corridoio terminò una ventina di metri dopo davanti a un’altra porta. Questa volta Gwendy bussò un codice di tre colpi più due. Un ragazzo molto giovane, di bell’aspetto e coi capelli lunghi ci fece entrare. Sulle sue braccia risaltavano molti tatuaggi ma ve n’era uno più grande degli altri, un cobra che gli si avvinghiava dal polso fino alla spalla.
“Ciao Thomas”, e nel salutarlo Gwendy gli accarezzò il serpente tatuato. Lui mi guardò di sfuggita. “È lei?” domandò. La mia guida annuì.
Insieme attraversammo la stanza, probabilmente un vecchio magazzino in disuso. C’erano delle casse ai lati e sopra alcuni scaffali, ma non riuscii a capire che cosa contenessero. Alla torcia di Gwendy si era aggiunta quella di Thomas, perciò la situazione non era cambiata di molto. Le ombre ci stavano addosso…
Passammo a un’altra stanza, simile alla prima. Intanto la temperatura si stava alzando, anzi si stava facendo decisamente caldo. Ci fermammo davanti a un’altra porta, che risaltava nell’oscurità per via di una forte luce bianca che fuorusciva dagli stipiti. Thomas usò una chiave per aprirla. “Riparatevi gli occhi…” avvertì. Abbagliati da quella luce artificiale, entrammo in una stanza più piccola, una specie di serra. Su un tavolo erano disposti dei vasi di terracotta, a ridosso di una parete vi erano quattro ventilatori accesi e sul soffitto due grosse lampade alogene abbagliavano violentemente le piante che crescevano nei vasi. Le riconobbi subito, anche se era la prima volta che le vedevo. Erano le leggendarie rose nere, i cui petali potevano farti raggiungere il Vortice, un mondo a metà strada tra lo sballo e la vibrazione. Allora non è solo una leggenda, pensai. Stordita da quella visione, fui presa per un braccio dal ragazzo che mi fece accomodare su un divano, davanti al tavolo. L’aria incominciava a farsi soffocante, forse per colpa delle lampade, o forse per qualcos’altro…
Nella stanza vi era uno stereo portatile. Gwendy estrasse dalla sua borsa una musicassetta e ce la infilò dentro. Pochi istanti dopo l’intro acustico di Saturn Woman inondò la stanza. Era il pezzo degli Azazel’s Eye che preferivo. L’assolo finale di Melvin riusciva ogni volta ad entrarmi dentro, insinuandosi nel mio stomaco, nei miei intestini, fondendosi con la parte più etera di me.
Thomas staccò un grosso petalo nero da una delle molte rose che crescevano nella serra. Mi disse di chiudere gli occhi e aprire la bocca. Io obbedii, stordita dal calore, dalla luce e da quelle note che mi entravano sottopelle. Mi appoggiò sulla lingua il petalo e per un momento sentii la bocca andarmi a fuoco. Il petalo si sciolse, restai ad occhi chiusi, la musica divenne liquida ed io vi ci affogai.
“La mia Desy…” era la Sua voce, inconfondibile.
“Melvin?”
“Apri gli occhi…”
“Ma…”
“Fidati…”
Non mi trovavo più nella serra. Stavo a sedere al bordo di un letto a baldacchino, in una stanza che non conoscevo. Il pavimento era cosparso di candele accese e c’era un piacevole odore di cannella e rosmarino nell’aria. Le lenzuola del letto erano di seta rosa, soffici e profumate. Mi voltai e c’era lui, adagiato sul letto con le spalle alla testiera, i capelli leggermente più lunghi che gli ricadevano ai lati del volto, e due occhi intensi ma dolci. Sorrideva…
“Vieni qui…”
“Ma dove siamo?”
“Non preoccuparti… Mi sei mancata, lo sai?”
Non dissi nient’altro. Ci amammo, come sempre ma anche in maniera nuova. Potevo udire in sottofondo l’assolo di Saturn Woman, ma era distante, come se provenisse da un altro mondo. Persi completamente il senso del tempo. Il nostro incontro poteva essere durato un battito di ciglia oppure un secolo. Prima di lasciarmi mi disse di non stare in pensiero per lui, che tutto era a posto.
“Ma è vero che sei con Lui?” domandai io.
“Sshhh! Non parliamo di Lui…” rispose, accendendosi una sigaretta. Me la passò dopo aver inalato, e tutto era così maledettamente reale e normale…
“Ci rivedremo?” chiesi allora.
“Forse…” sussurrò. “Forse…” ma i suoi occhi guardavano altrove e potrei giurare di averci visto dentro un baluginio cremisi.
Finimmo le sigaretta poi lui se ne andò. Mi addormentai quasi subito e mi risvegliai sul divano della serra. Il sogno era finito, se di sogno si era trattato.
“Tutto bene, bambola?” Stranamente le parole di Gwendaline la Matta suonarono dolci, genuinamente preoccupate.
“Tutto ok…” risposi.
“L’amore è un brutto trip!” cercò di consolarmi lei.
“Forse…” dissi. “Forse…”
GM Willo – Altri Lavori
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