Un nuovo racconto di Gaspare Burgio che sembra quasi un piccolo omaggio a IT di Stephen King…
Il cuore del mostro stava sotto la città, molto in profondità, e nessuno lo sapeva. In tempi antichi, i mostri dimoravano presso i fiumi, in agguato, e le persone costruivano vicino le loro abitazioni.
Neppure Vincent sapeva del cuore del mostro, fino a che non incontrò i folletti.
Vincent non era ricco, anzi, era un uomo con molto poco denaro. Per vivere faceva l’insegnante per bambini sordomuti. Era un lavoro che gli piaceva molto, perchè era bello occuparsi di qualcuno e questo lo faceva sentire utile. Tuttavia accadde qualcosa di brutto e Vincent perse molta della sua gioia di vivere. Passava le sue giornate su una panchina del parco, distratto, o in casa, senza rivolgere quasi mai la parola a nessuno. Una volta a settimana si recava in ospedale a trovare Carol. Se capitava, beveva, e beveva molto, seppure prima non gli piacesse un granchè.
Accadde così, durante una notte insonne, che avesse bevuto più del solito, e si smarrì nella zona industriale della città, al confine, dove le strade erano tutte uguali e non vi erano case ma solo magazzini e altre cose indefinite. Non era molto in sè, e camminava sbandando, spesso sul punto di cadere. Così si aggrappò ad una rete metallica, e infine si lasciò scivolare giù, con il lungo cappotto che lambiva una pozza sporca. Aspettava di avere abbastanza forza per ripartire, ma per quel che gli importava avrebbe di gran lunga preferito addormentarsi qui. Stava così, infreddolito e disperato con la testa nelle mani, quando un cosino luccicante gli tirò i capelli. Era come un bambino, ma fatto tutto di una fosforescenza bianca e con delle frange di luce a fargli da ali. Non aveva occhi ma una bocca si, e sembrava sorridere, mentre svolazzava intorno a Vincent. Costui, preso dallo stupore e dalla paura, provò a scappare ma inciampò nel suo stesso cappotto, e finì bocconi. La cosina luminosa rise di lui, e Vincent pensò si trattasse di un diavolo venuto a torturarlo. Provò a correre via, per quanto la sbornia e la paura gli permettessero, e di nuovo finì lungo disteso, col fiatone e gli occhi umidi. Si trovava all’imbocco di uno sfasciacarrozze, probabilmente in disuso, una larga piazza malmessa con cataste di macchine vecchie e rugginose distrutte dal tempo.
Si addentrò nel labirinto di lamiere, guardandosi spesso indietro per paura che la cosetta disumana lo stesse inseguendo. Ci si può immaginare allora la meraviglia che ebbe Vincent quando ne trovò almeno un centinaio, tutti assieme. Stavano in una piazzola tra le cataste di relitti, e svolazzavano come lucciole, o sedevano sulle lamiere. Ridevano col suono di bambini piccoli.
Un paio di queste gli si fecero vicine, e Vincent arretrò la testa, come gli si fossero fatte vicine due api. Poi le cosine si accorsero tutte di lui, e poco alla volta si placarono, e si posarono tutte, facendo silenzio. Vincent ebbe la strana idea che lo stessero aspettando, un po’ come nei sogni, che sai le cose senza averle davvero sapute.
Uno di quelli, un po’ più grosso degli altri, gli si fece incontro svolazzando e fermandosi a un metro dal suo naso.
– Benvenuto, Vincent.
– Voi chi siete?
– Non lo so chi siamo. Ma sappiamo chi sei tu. Tu sei la persona che ci ha creati. – Vincent si passò una mano sui capelli bagnati.
– Io? Io non ho fatto nulla.
– Oh, si, invece. Tu l’hai fatto. Non so perchè, tante cose non so e non sappiamo. Ma noi siamo nati da quella cosa là, e quella cosa là è tua.
Il cosetto indicò un punto dello spiazzo, e Vincent stralunato vi si recò, mentre i folletti si spostavano al suo passaggio. Sopra un cofano stava un quaderno tutto piegato, distrutto dalla pioggia e dal tempo. Però lo riconosceva, era il SUO quaderno. In quelle pagine, la notte, scriveva per Carol. Ogni giorno le scriveva qualcosa, perchè non aveva il coraggio di parlarle. Si conoscevano da quando erano bambini, e Vincent non aveva mai avuto il coraggio di dirle che sentiva qualcosa per lei. Poi un giorno gli era arrivata la notizia che Carol si sposava, e lui, distrutto, aveva scagliato il quaderno fuori dalla finestra.
Non sapeva come diavolo fosse finito fin là, ma era inequivocabilmente il suo quaderno. Vincent si sedette su un copertone tenendo le pagine piegate e gonfie tra le mani.
– Ora lei sta dormendo, vero? – Vincent fece di si con la testa.
– Dorme da molto tempo. Forse non si sveglierà mai.
Il folletto grugnì.
– Che parole sono queste? Si sveglierà di sicuro, ma tu devi fare qualcosa. Qualcuno deve fare qualcosa. Il mostro le ha preso il respiro. – Vincent alzò un sopracciglio. Non aveva capito. I folletti gli spiegarono del cuore di mostro che stava sotto la città, e come raggiungerlo, anche se lo avvertirono dei molti pericoli che avrebbe incontrato.
Vincent prese la mano di Carol nelle sue. Voleva dirle qualcosa, ma non sapeva bene quali parole usare. Si era ripulito, aveva superato la sbronza ed era deciso quanto mai a fare quel che andava fatto. Foster mandò un colpo di tosse. Era appoggiato allo stipite della porta, le braccia conserte.
– Quella è mia moglie. Fattene una ragione. -, disse a Vincent con tono indolente. Vincent deglutì, e si alzò in piedi.
– Senti, devo parlarti di una cosa. E’ strana. Ma è importante.
Lo condusse in fondo alla corsia dell’ospedale, dove non passavano degenti, dottori o infermieri.
– C’è un tombino, in Piazza del Comune, un po’ defilato. Vieni con me. Dobbiamo scendere là sotto.
Foster sgranò gli occhi. – Tu sei impazzito. Ma che vuol dire?
– E’ l’unica cosa che possiamo fare. Da solo non ci riuscirei, mi serve l’aiuto di qualcuno.
– Ma dai… e questa da dove viene? -, ridacchiò Foster, per poi fermarsi quando incrociò lo sguardo serio di Vincent. – Io non parlo con i pazzi. -, sentenziò.
– Guardala.-, disse tranquillo Vincent. – Tu guardala.
Foster guardò Carol. Sembrava dormire. Non rideva, non parlava più. Non piegava più la carta colorata, e non insegnava più ai bambini come leggere o scrivere. Non camminava più nel parco, non faceva la doccia e non scattava più foto alle maschere del Carnevale. Era là, ferma, e dormiva. Nessuno riusciva a svegliarla.
Foster si morse un labbro, poi soffiò, scutendo la testa. – Io sono un avvocato. Non sono fatto per queste cose. Addio, Vincent, cerca di starci lontani.
E con quelle parole il marito di Carol si eclissò.
Vincent camminava con fare circospetto, la spranga di ferro sotto il cappotto. L’avrebbe usata per alzare il tombino e di là scendere fin sotto la metropoli, secondo quanto spiegato dai folletti.
Quando voltò l’angolo, trovò Foster appoggiato al muro del Palazzo Comunale, con una sigaretta fumata già a mezzo.
– Non dire nulla. Facciamo questa follia.
Gaspare Burgio – Altri Lavori
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