Sono vecchia ormai, sono invecchiata per vedere i miei figli crescere. Ho accettato di perdere la giovinezza, il candore solo per loro. Ogni giorno che passava e vedevo una ruga in più sul mio volto, andavo a guardare i miei ragazzi e sorridevo nel vederli trasformati in persone adulte. Ora sono grandi, distanti, quasi dilatati nel tempo e io sono sola.
Sola con il ricordo, l’unico che mi perseguita da tempo, che mi fa svegliare di notte tremante e furiosa. Ormai il ricordo si è fatto sangue e carne, quanto lo sono io. È l’unico segreto pesante come una pietra sul cuore che ho e avrò sempre. Non sono nata così malinconica e disperata, no tutt’altro. Il mio giorno di nascita coincide con l’inizio della primavera. Sono stata una bambina raggiante. In famiglia eravamo in tanti, stipati, stretti, ma felici. Mia madre cantava sempre, era superficiale ma allegra, aveva un sorriso per tutti. Mio padre invece aveva il vizio più che il dono di bere, ma non era violento. Si immalinconiva quando beveva un bicchiere di troppo e cominciava a parlare della guerra, dei compagni uccisi e piangeva. Morì presto mio padre, non si sa se di tumore o di amarezza. Mia madre con il suo candore non era riuscita a combattere l’orrore della guerra che lo perseguitava da tempo.
Crescendo scoprii di avere un grande ascendente sugli uomini. Ero bella come solo una sedicenne può essere. Soda e luminosa. Me ne andavo per i campi a raccogliere fiori e gli occhi dei contadini mi fissavano avidi. Ricordo mia madre che mi cercava, mi badava con lo sguardo. A quei tempi aveva smesso di cantare, perché stava per scoppiare un’altra guerra e aveva due figli maschi da mandare al fronte. In casa non si parlava d’altro. I miei fratelli sciocchi e ingenui erano fieri di mostrare la cartolina, non conoscevano nulla se non il grano, il sapore delle mele e qualche bacio sulle labbra. Io sapevo della vita ancor meno di loro. Allora si viveva in un misticismo puro, reale, non eravamo inquinati da nulla e da niente. Avevamo freddo e fame nelle notti invernali e in primavera godevamo del sole e dell’acqua che brillava nel fiume.
Nell’estate del ’39 tra campi di grano e girasoli, mi rivedo su una bicicletta mezza rotta e cigolante. In famiglia la usavamo più che altro per spostarci o, per andare lontano e per noi lontano significava andare al podere di Don Matteo per vendere le uova delle nostre galline. Poi c’era la chiesa su un monte poco lontano e poche case vicino al fiume. Questo era il mio villaggio, il mio universo, la mia vita. La mia fantasia non andava mai oltre alle quelle montagne. Ricordo un mattino caldo, afoso, sentivo la schiena bagnata e il vestito era incollato al corpo. Pedalavo velocemente, dovevo portare le uova al podere ed era già tardi, quando vidi camminare con fare disinvolto un ragazzo poco più grande di me. Aveva capelli castano ramato, occhi dorati come un gatto. Sembrava camminasse sull’acqua da tanto era naturale il suo andare. Gli passai accanto, ci guardammo per un istante poi rossa in viso, mi allontanai. Che strano che è l’amore, ti prende come una bestia feroce all’improvviso, ti si attacca dentro e non ti lascia più.
Non c’erano state parole, non sapevo chi fosse, eppure già il mio corpo, le mie orecchie avevano bisogno di lui e della sua voce. Appena potevo ripercorrevo la stretta via dove l’avevo visto per la prima volta. Sentii dire che proprio in quel luogo si era trasferita una nuova famiglia, venivano da Gambettola, erano madre, padre, due figlie grandi e un ragazzo di diciotto anni. Era senz’altro lui, pensavo e mi chiedevo quando l’avrei rivisto. L’attesa era già di per sé l’inizio di questo amore che mi accompagnò per molto tempo. Passarono settimane lunghissime, vedevo la madre, le sorelle stendere i panni nel cortile della loro misera casa, ma lui sembrava essere scomparso. Venni a sapere poi che la madre era riuscita a farlo imbarcare clandestinamente su una barca estera per farlo scappare dalla guerra. Giovanni, così si chiamava, era scappato di fronte alla propria responsabilità. Passarono gli anni, e anche il mio corpo maturò. Ero abbastanza grande da poter commettere degli errori che avrebbero sconvolto l’ordine della mia vita. Quando lo rividi, il danno ormai era stato fatto. Lui era diventato una malattia sotto pelle che faceva resistenza a uscire. Mi guardò, mi sorrise e mi stregò. Non avevo esperienza del vivere, quella viene con il dolore. All’epoca credevo che tutto mi fosse concesso, perfino la felicità. Cominciammo a incontrarci di nascosto e le mani si facevano sempre più ardite e avide. Ero un pezzo di cuore fra le sue mani. Mi costrinse, mi invogliò, mi abituò al suo volere. Giovanni era vizioso e astuto, non voleva lavorare, rubava i pochi soldi di sua madre per giocarseli al gioco, beveva, giocava e amava me. Un giorno mia madre ingrigita dagli anni mi chiese quasi in preghiera di accettare l’offerta di matrimonio di un vecchio, un vecchio ricco e questo a parer suo faceva la differenza. Scappai da lei, non volevo vedere le sue lacrime, non volevo toccare la miseria che era precipitata su noi dopo la guerra. Andai da Giovanni cercando consolazione e invece lui disse, che era un bene… il vecchio sarebbe morto e noi avremmo potuto godere dopo del suo denaro. In seguito mi avrebbe sposato. Giurò che l’avrebbe fatto e io feci lo sbaglio di credergli. La prima notte di nozze fu quasi uno stupro al cuore, invece di piangere, vomitavo. Il vecchio credeva invece che avessi paura di lui. Io, quella notte nel bagno, con le piastrelle fredde, non avevo paura di lui, ma di me stessa. Provavo orrore per la vita a venire. Eppure il corpo e la mente si abituarono al dolore di essere toccata, leccata e posseduta da lui. Chiudevo gli occhi e non pensavo a niente. Rimasi incinta più volte. Quando nacquero i bambini portarono gioia e respiro, ma il mio respiro era comunque troppo corto per vivere. Giovanni si assentava sempre più spesso da me, sembrava quasi provasse disgusto per quello che ero diventata, eppure se la mia vita aveva preso quella piega malsana lo dovevo a lui. Dopo anni di sopportazione, di abusi, il vecchio morì. Io ero sfiorita ma soprattutto ero diventata vecchia dentro. Andai a riscuotere pegno da quell’uomo che mi aveva promesso di farmi sua sposa, ma lui non volle. Rideva di me, diceva che le promesse a vent’anni erano false e inutili e io, invece su quella promessa avevo speso una vita. Ero furiosa, danneggiata nell’anima e corrotta. Per anni avevo mentito, il candore e la bontà erano scomparsi. Ora esigevo solo che mantenesse la promessa. Gli mandai un biglietto, gli chiesi di incontrarci nel fienile di notte. Accettò. Quando mi sentì arrivare, in quella notte di neve, mi tastò tutta. Aveva paura di me. Mi tastò le braccia, le gambe, ma non fece in tempo a tastarmi gli stivali, quando io, con un coltello lo colpii. C’era la neve quella notte. Cadde tra le mie braccia e la neve divenne rossa porpora. lo baciai e lui mi guardò con dolcezza. In quel momento fui la sua sposa.
Elisa Guerrini – Altri Lavori
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