Paul Valery
L’acqua scorre su tutto, su quel carnaio irrisolto che è il letto del fiume: indifferente, distaccato rispetto ad ogni cosa che abbia anche solo la minima pretesa di contagiarne l’imperturbabile corsa.
La cresta dell’acqua è come una pelle soffice che nasconde terribili abissi.
L’umanità si divide nettamente in due categorie: da un lato si compone di quegli individui che vedono la possibilità di sfruttare ogni manifestazione della natura impunemente; dall’altra ci sono coloro che si accontentano d’esser testimoni, optando per il ruolo dello spettatore neutrale. Io faccio parte di quest’ultima più ristretta categoria e credo che, nonostante tutto, non possa essere considerata migliore o peggiore dell’altra.
Le autorità non hanno voluto ascoltare, quando la coscienza mi ha imposto di denunciare quelle acque fameliche. Fabrizio il pescatore, con la sua lenza vecchio stile; Giacomo il canoista, con la sua traversata giornaliera da una sponda all’altra; Marta, con il suo corpo formoso, a bagnare i piedi sulla riva tranquilla. Tutti se li era presi il fiume, sotto il mio sguardo attento, spaventato, curioso. Deliziato.
E altre splendide vittime, di cui ricordo le fattezze ma non conosco i nomi, erano state prescelte dalle acque violente e profonde, come per un effimero lancio di dadi.
Il sergente aveva deciso di ridicolizzare la mia denuncia, di darla in pasto ai suoi galoppini: – E mi dica, Nessie è davvero tanto grosso? -, mentre le risate esplodevano in questura e il mio imbarazzo si trasformava velocemente in cinismo. Il collo bovino del sergente gorgogliava di un’ilarità fuori luogo, io non desideravo altro che vederlo sprofondare nel fiume, godendo dello spettacolo.
Che cazzo ne sapevo se il mostro c’era o meno? Tutto quello che ho visto si è svolto sempre sulla superficie, sul pelo dell’acqua. Di quel che rumoreggia sotto quelle onde rassicuranti io non posso né voglio curarmi. Ciò che si manifesta agli occhi è ciò su cui abbiamo l’unico legittimo potere: l’osservazione.
Fabrizio, Giacomo e Marta, la gente non sa nemmeno che sono morti, essi figurano nel registro “Scomparsi”. Nessuna autorità ha dato fiducia alla mia testimonianza, tutti mi hanno preso per visionario e così, ancora oggi, li stanno cercando.
Se venissero a conoscenza della verità, non direbbero: – Povero Fabrizio, un ragazzo così innocente! -, sarebbe un commento ipocrita, interessato, partigiano.
Come può essere considerato innocente un uomo che penetra le profondità del fiume, fosse anche soltanto con una lenza? Egli fa parte di coloro che scelgono di intervenire di fronte alle meraviglie e alle opportunità della natura! Egli preferisce lo sfruttamento alla neutralità dello spettatore! Egli sceglie di mischiarsi a poteri che gli appaiono oscuri, che restano imperscrutabili, perché nessuno, nessuno sa cosa si cela nelle profondità delle acque. Nessuno!
Come può Giacomo essere innocente? Egli solca la cresta, apre una ferita lacerante sulla sacra pelle del fiume, ne violenta la perfetta armonia! Egli contamina le acque con il legno intagliato del suo scafo, egli si macchia di una colpa che gli altri uomini scelgono di non vedere!
E Marta, con quei suoi piedi estratti da scarpe lavorate a macchina, da quel cuoio che fu un tempo manto e vanto di chissà quale maestosa belva. Marta, con la sua facciata d’innocenza, riesce ad essere più stolta di chiunque altro: immerge il proprio corpo nelle profonde volontà del fiume. Espone se stessa, con l’incoscienza più bieca e sensuale che si possa immaginare, al pericolo dell’inconoscibile. E paga quest’imprudenza con la vita.
Ipocriti coloro che li considerano “vittime innocenti”: l’abisso ha un costo insostenibile.
Chi viola l’armonia del fiume è vittima colpevole, carnefice innocente, e a tale prezzo deve sottostare.
Nel momento in cui le acque s’increspano, soffocando le urla dei due dodicenni, mi scopro a recitare un ruolo che non m’appartiene.
Da settimane la fame del fiume e la mia sete di spettatore erano insoddisfatte, le voci della strage iniziavano a spandersi velocemente, così i passanti cominciarono ad evitare quel ponte, quella contrada.
Quando sorpresi i due ragazzini a giocare in un parco vicino al luogo maledetto, li convinsi a seguirmi su per il sentiero col pretesto di un bagno. L’acqua, gentile, seduceva le proprie vittime.
Ho abbandonato le mie vesti di spettatore, ho offerto al fiume il suo lauto pasto macchiandomi di arroganza, sostituendo con la moneta del mio arbitrio i dadi del fato, mischiandomi a Fabrizio, Marta e Giacomo.
L’ultimo pensiero che mi balena, quando le acque si acchetano, è che non potrò resistere al richiamo di questa colpa, che la redenzione è a portata di mano.
Il fiume, con voce suadente, reclama il suo imputato e scorrerà indifferente sul suo corpo, come su ogni altra cosa.
Già invidio la mia assenza che, osservando distaccata, si farà complice del fiume e della mia fine, mentre esso, dimentico d’ogni cosa, rimarrà imperturbabile nella sua eterna innocenza.
Testo di Riccardo Dal Ferro – Altri Lavori
Immagine di Marco Pasin – Altri Lavori
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