L’ESORCISMO

di Riccardo Dal Ferro
Illustrazione di Marco Pasin

Perché era capitato proprio a lui?
Quel che dovete sapere è che Terenzio Giansechi non era pronto a tutto questo. Lui, coscienzioso come un cortigiano del più esigente dei sovrani, aveva modellato la sua esistenza e tutto il suo stile di vita attorno alla certezza delle cifre, la mansuetudine degli archivi, la prevedibilità della contabilità. Non aveva mai desiderato niente la cui portata non fosse raggiungibile per mezzo del freddo esercizio del calcolatore, né aveva sottratto tempo al raziocinio a causa di spavalderie hippie o pruriti romanzeschi.
La sua calvizie, gli occhiali a palla, la cravatta orribilmente abbinata a quel vestito, tutto stava a testimoniare la sua appartenenza a quella nutrita popolazione umana che nella nostra epoca può tranquillamente essere definita “normale”. Egli era la normalità che aveva scelto per sé, una normalità anch’essa a lungo ponderata e valutata.
Era proprio a causa di ciò che la sensazione predominante, nel vedere sua figlia Isabella, da splendida adolescente piena di aspettative qual era, nel vedere Isabella in preda a convulsioni demoniache frantumare vasi, cristalli e televisori al plasma nuovi di zecca; era per questo che la sensazione predominante vedendo tutto ciò poteva definirsi “sgomento più irrimediabile”, misto a una sorta di mesta disperazione che traspariva non tanto da uno sguardo classicamente disilluso, quanto da un preoccupante spasmo che gli aveva preso un angolo della bocca, il quale si muoveva in modo compulsivo, ricordando vagamente l’eclettico dinamismo di una coda di lucertola appena tagliata.
Terenzio non era assolutamente pronto a tutto questo, e come poteva esserlo? Tradendo la propria fedeltà al raziocinio aveva persino rimpolpato la propria libreria di testi sacri che potessero mantenere una parvenza non sospetta di religiosità e spiritualismo. Decise di partire dai testi più importanti, quelli la cui presenza si fa solitamente inevitabile, e cominciò con la Bibbia e i Vangeli, poi con il Corano e la Torah. Non lesse mai nemmeno una pagina di quei volumi, e si trovò a rimpiangere questa scelta, perché nel particolare frangente in cui si trovava ora, quelle conoscenze gli sarebbero tornate utili – Isabella aveva preso a roteare gli occhi in maniera vertiginosa, cacciando roche risate provenienti da una gola che di certo non era la sua. Decise di non eccedere con orientalismi e New Age, dal momento che riteneva i suoi tipici ospiti sufficientemente intelligenti da farsi pericolosamente incuriosire da un eventuale esagerato interesse per Buddhismo e Taoismo. La sua libreria era equilibrata in maniera scientifica tra la scienza e la spiritualità, cosa che, dal suo punto di vista, salvava egregiamente sia le illusioni della moglie che la stima nutrita nei suoi confronti dai colleghi invitati a cena. Seguiva persino in chiesa la propria sposa almeno una volta al mese, per assecondare quel bisogno di irrazionalità manifestato dalla consorte a ogni spron battuto. Zen, yoga, occultismo, divinazione, tutto quello che poteva spingere l’interesse di Luisa, ecco che lui lo assecondava, da buon marito coscienzioso e consapevole di quanto sia fondamentale, in una coppia, arrivare ad accettabili compromessi.
Ma allora, perché quel terribile scenario gli si parava di fronte? Isabella sbraitava bestemmie in una lingua sconosciuta, Luisa sedeva per terra in cucina, piangendo lacrime nervose e lanciando occhiate terrorizzate verso il centro di quel salotto devastato. La figlia raccolse da terra la scimitarra comprata in India qualche anno prima e decise di squarciare il divano in moquette rossa, il contenuto piumoso schizzò come un vento nordico per tutta la stanza, inondando di un candore truculento l’ambiente irreale, mentre la carnefice prendeva la decisione di vomitare proprio dentro quella ferita nel poliestere del sofà una melma arancione il cui odore ricordava decisamente lo zolfo. Terenzio, nella sua impassibile disperazione, si accorse che Luisa aveva estratto un rosario ebraico, iniziando a farfugliare preghiere lette da chissà quale guida sullo shintoismo o su Dianetics.
Lui, appena rientrato dal lavoro, stringendo quella valigetta nera così classica e traboccante di scartoffie fotocopiate, la pelata ben lucida in tono con le scarpe, si trovò circondato da piume volanti e urla infernali e vomito bollente, provenienti tutti dalla cieca furia della sua unica amata figlia di sedici anni.
E a tutto questo di certo non era pronto.

Era passata ormai una settimana dall’inizio di quello che padre Costina chiamò “il trattamento”, ma ancora il demone non era stato scacciato da quella casa.
Terenzio aveva dovuto subire il brutto colpo di arrendersi all’evidenza dei fatti e, quando anche Luisa fu posseduta dal bastardo che imperversava tra quelle mura, si decise a chiamare un esorcista.
Il curriculum di padre Costina convinse Terenzio della bontà della scelta – figuravano centinaia di trattamenti portati a lieto fine, e solo una piccola percentuale tra questi non sembrava andata per il meglio. Vista la scarsa conoscenza che aveva della materia, Terenzio si affidò come sempre al solido e gelido fatto statistico, e così chiamò il referenziato Costina, arrivato in casa Giansechi durante una afosa giornata di maggio.
Si trattava di un demone burlone, interloquì il santone, e per questo fatto si doveva rimanere tutti dentro casa fino a che la sua presenza non fosse stata completamente debellata. Terenzio protestò, disse che lui sarebbe dovuto andare a lavorare, ma la prospettiva conseguente alla mancata adesione alle istruzioni perentorie di Costina era quella di dover convivere per lungo tempo tra i fastidiosi tormenti dell’indesiderato ospite.
La burla del demone consisteva nel possedere a turno le due donne della vita di Terenzio. Luisa in quella settimana fu preda per ben tre volte della furia di Flajello (come Costina disse chiamarsi lo spirito), e durante uno di quei terribili episodi dovettero intervenire i vigili del fuoco nel farla scendere dall’albero del giardino di casa: Luisa si era issata chissà come su quei cinque metri d’altezza, completamente nuda, e urlava versi irriconoscibili, di primo acchito attribuiti a una qualunque delle lingue infernali. Ma la registrazione delle sue farneticazioni dimostrò che si trattava del discorso di insediamento di Papa Giovanni Paolo II pronunciato al contrario. Costina disse che il comportamento di Flajello era irrequieto, che il demone andava fermato a ogni costo prima di mettere in pericolo davvero la famiglia. E così intensificò la sua presenza nella casa.
Dopo due settimane, ogni stanza era tappezzata di crocifissi e acquasantiere. Terenzio vagava per i corridoi come un altro spirito senza pace, la sua camicia aveva perduto la compostezza dell’impiegato per assomigliare a quella di un senzatetto. Luisa, nei pochi momenti in cui non era preda di epilessie demoniache, si dedicava alla lettura dei salmi ebraici, aveva scoperto l’innata capacità di leggere quell’alfabeto fino ad allora sconosciuto, ma Costina disse che si trattava di un “effetto collaterale”.
Isabella non parlava più. I suoi sedici anni non avevano retto alle sconvolgenti scorribande del diavolaccio, e la sua ragione si era definitivamente arresa quando, proprio nel mezzo del salotto, il suo amato cagnolino Rufy era esploso come un petardo, spargendo rosee frattaglie e candida peluria in giro per tutta la stanza. Era un cocker vincitore di alcuni concorsi di bellezza, ora avrebbe potuto vincere soltanto un contest di orrore su rotten.com.
Costina procedeva cautamente con il suo trattamento a servizio del Bene. Spargeva liquidi che profumavano di rose e incenso pronunciando tra sé parole incomprensibili. Gettava sguardi astuti negli angoli della casa, come quando un investigatore esperto vuol scovare di sorpresa il ladro cui dà la caccia. La sua tonaca nera si disperdeva nell’atmosfera oscura dell’abitazione, nella quale l’energia elettrica non arrivava più, e in cui l’acqua corrente era ormai un ricordo. Costina diceva che non si potevano usare beni materiali ed energetici di alcun tipo, Flajello li avrebbe senza dubbio usati per portare a termine nel peggiore dei modi la sua azione illegale. Ridurre al minimo il rischio voleva dire staccare corrente, acqua, mangiare gallette di riso e lavarsi a secco.
Oltre all’incenso e allo zolfo, i cui effluvi coprivano tutto, l’altro aroma esuberante era quello del sudore.
Terenzio non era pronto a tutto questo.
Soprattutto, non era pronto all’epilogo che si verificò di fronte ai suoi occhi. Non era pronto a vedere Costina sollevato da terra mentre recitava a squarciagola una preghiera latina, crocifisso ben alto ad ammonire lo spirito malvagio. Non era pronto a vedere esplodere la cucina (il gas non era stato staccato, mannaggia loro) e vederne uscire Luisa di corsa con i capelli in fiamme. Non era pronto a vedere sua figlia Isabella sfondare una parete di cartongesso – e lui vi può assicurare quanto fosse ben piantata e solida, con la sola forza delle testate, ululando epiteti irripetibili, voltandosi verso di lui con una mannaia ben stretta tra le mani; non era pronto a vederla prendere la rincorsa verso di lui, il volto sfigurato in una smorfia di tenace follia, i nervi stirati in una conformazione assolutamente disumana. Era pronto però a morire, in quel frangente così romanzesco, uno di quegli accadimenti che aveva cercato di tener distanti per tutta la vita con la forza della matematica e della pacatezza. Era pronto, sì. E chiuse gli occhi, stringendoli come la vita che ancora gli respirava addosso agitata.
Quando li riaprì, si rese conto che il fumo aveva invaso lo spazio circostante. L’odore era nauseabondo, e c’era della melma particolarmente viscosa sul pavimento, dove lui era steso supino. Si rialzò convinto di essere morto, e no, non era pronto nemmeno a scoprire che quello era in realtà l’inferno. Non se lo meritava.
Fu Costina a ricondurlo nel nostro mondo, la sua mano annerita dallo zolfo bruciato ruppe l’invisibilità del fumo e gli porse un appiglio sicuro, che Terenzio non si fece scappare. Diradatosi il fumo, vide distintamente la devastazione della sua casa, Luisa stava seduta a terra con i capelli carbonizzati, la parte destra della testa era praticamente calva. Farneticava parole in ebraico, fissando in modo malato il pavimento e ciondolandosi in modo compulsivo avanti e indietro. Isabella giaceva a faccia in giù sul pavimento, la mannaia partita dalla sua mano aveva a quanto pare sfiorato la testa di papà per conficcarsi diligente su ciò che rimaneva del comò nell’atrio.
Diradatosi il fumo, vide distintamente un’ombra eterea colpire con rabbia l’ultima lampada rimasta integra in casa, percorrere con passi sanguinolenti il tappeto ormai disintegrato da fuoco e melme varie e uscire con gran fragore dalla finestra del salotto, rompendo ciò che restava del vetro. Era finita.
Incredibilmente, Terenzio Giansechi scoprì di non essere pronto a ricominciare daccapo, non dopo quel che era successo. Cercò uno sguardo di amichevole conforto negli occhi del suo salvatore, padre Costina, il quale lo sorprese non poco esibendogli una fattura. Il residuo di ciò che fu un tempo un minuzioso contabile si fece largo tra le maglie strette di quella tragedia, la trasformazione di Terenzio in una creatura irrazionale non era ultimata, e i suoi occhi stanchi scrutarono le cifre che il prete aveva sventolato con fare esperto, indossando gli occhiali distrutti e ormai privi di lenti che lo facevano sentire così “a casa”.
Padre Costina uscì vincente e arricchito da quella casa, mentre Terenzio faceva ordine nella propria testa, pronto a dimenticare tutto, ma forse non ancora realmente capace di farlo senza mentire a se stesso. Avrebbe intrapreso un viaggio, sì, un viaggio con quel relitto di famiglia che giaceva sul suolo di casa, un viaggio purificatore per allontanarsi dalla distruzione di quelle due settimane così tremende. Non sapeva bene che cosa pensare di Costina, sapeva solo di essergli grato, ma di volerlo dimenticare del tutto, rimuovendolo dalle macerie della sua mente sconvolta.
Non era pronto a rimettere ordine nel campo di battaglia lasciato da Flajello, ma iniziò dalle cose che sapeva bene essergli più congeniali: prese penna e foglio e iniziò a catalogare gli oggetti devastati e le suppellettili divelte, quantificando diligentemente i danni portati dalla guerra.
Sì, a questo Terenzio Giansechi era pronto.

Spossato dalla dura prova che lo aveva visto protagonista, don Costina sedeva ancora teso sulla panchina di un parco non meglio identificato, nella cittadina di mondo il cui nome si perde nelle memorie di queste righe.
«Sei proprio uno stronzo, quante volte ti ho detto di non causare danni permanenti ai clienti?» La voce di don Costina si perdeva nell’aria senza interlocutori apparenti, come coriandoli sparsi al vento. Ma la risposta non tardò ad arrivare: «Uff, sei peggio dei miei vecchi datori di lavoro. Il mio è un mestiere difficile, sai, devo anche potermi divertire un po’!»
Flajello si manifestò improvvisamente accanto al vecchio, scheletrico nel suo terribile aspetto infernale: «É molto difficile saltare da un corpo all’altro per non farmi beccare dagli altri demoni, e tu dovresti essere un po’ più puntuale nei tuoi maledetti esorcismi! Mi fai rischiare troppo, lo sai che non posso possedere qualcuno per più di qualche minuto, altrimenti poi vengo segnalato!!» Costina mal sopportava il suo interlocutore, lo scrutava con fare diffidente e indignato: «E tu sai che io devo prendere tutte le precauzioni del caso per non far insospettire i clienti, vero? Sei proprio uno smidollato. Un esorcismo non è mica facile da recitare!»
I due stettero in silenzio per digerire l’uno le ingiurie dell’altro. Non c’erano passanti a testimonianza del curioso incontro, soltanto il sole accecante e qualche albero silenzioso.
Fu Costina a rompere la tregua: «Il cane… era proprio necessario?»
«Certo, la ragazza non era impazzita neanche dopo che le avevo ribaltato il letto durante la notte, e poi è stato piuttosto divertente vedere quel batuffolo di peli esplodere come una bom…»
«Ti prego, basta così, Flajello. Credo che per oggi ne abbiamo fatte a sufficienza. Al solito, sei sicuro di non volere una piccola parte del compenso? A me questi avanzano e non ne darò un centesimo in beneficenza.»
«A me dei soldi non importa niente, lo sai, quelli il mio vecchio capo li ha inventati per voi, mica per noi demoni. A me basta quella dose di anime che mi sono posseduto a sbafo in queste due settimane, non hai idea di che sensazione sia.»
Costina ribatté: «Ho paura che, continuando queste scorribande in tua compagnia, un giorno scoprirò quali siano i piaceri di un demonio.»
«Ehi, ehi, prete, non volare troppo alto. Quando finirai all’inferno, tu potrai al massimo ambire a essere un dannato di quarto o quinto livello. Se sarai fortunato, forse un piccolo folletto da scherzi notturni. Per diventare un demonio come me ti ci vuole ben altro.»
«Flajello, mi spaventi.»
«È il mio lavoro, vecchio.»
Lontano da loro, Terenzio Giansechi montava su un aereo diretto chissà dove, per cercare chissà quale serenità. Le sue due donne, visibilmente scosse dalla vicenda subita, lo seguivano senza fare domande.
Costina lasciò che Flajello scomparisse nella brezza primaverile, così come scompaiono le speranze di fronte al Maligno.
Come prima cosa, avrebbe premiato il proprio successo acquistando una nuova stola. Il lavoro del finto Esorcista meritava queste piccole soddisfazioni materialiste.
Costina si alzò, c’era una parrocchia di fedeli ad attenderlo. Flajello sarebbe sparito per i prossimi due o tre mesi, e lui avrebbe atteso di rivederlo, quando il bisogno di anime (per il demone) e di pecunia (per il prete) si sarebbe di nuovo fatto vivo.
Nel frattempo, estrasse il rosario e, con fare esperto, iniziò a mugugnare tra sé qualche Ave Maria.

Riccardo Dal Ferro – Altri Lavori

Marco Pasin – Altri Lavori

Fonte: http://sotterfugi.wordpress.com/

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