IL MISTERO DI CASA ALTA

Sono diversi giorni che non sentiamo Gaspare, che da più di un anno ormai ci regala le sue storie, sempre intrise di belle sensazioni ed ironia. Nel pubblicare questo suo simpaticissimo racconto, vorrei cogliere l’occasione per salutarlo e pregarlo di farsi sentire, perchè siamo un po’ preoccupati.

IL MISTERO DI CASA ALTA

di Gaspare Burgio

Del grande mistero di Casa Alta non mi importò nulla fino a che non divenni proprietario di Casa Alta. Nemmeno sapevo che esistesse: io pensavo ai cavalli, a restare piacevolmente stupido, povero e inutile, e invece BAM, finito in mezzo a questa storia che mi tocca pure scriverla o non ci capirò mai nulla.
Abitavo in una sorta di cassonetto preistorico, ma ci stavo bene, accidenti, era mio e poi io non amo le case, sono tutte là nel mezzo, pretendono tendine, pulizia, ristrutturazioni e se vuoi andare che so io, dico un esempio, all’ippodromo, devi fare giri strani, tutti a zig zag. No no, io le case le odio, la gente dovrebbe vivere sulle barche, al limite sottoterra, perché se Barone Lattemiele in terza gara me lo danno 5 a 2 e ho le accoppiate perfette, questi palazzi nel mezzo impediscono il mio sacrosanto diritto di raggiungere l’ippodromo secondo il tragitto più breve e in tempo utile. Che poi sai che spettacolo: senza niente in mezzo si potrebbero far andare i cavalli avanti, avanti all’infinito. Corse di venti, cento, mille cavalli impazziti al galoppo, e tutti felici a puntare, scommettere, urlare e festeggiare. Che mondo magnifico se non ci fossero le case!
Ero felice possessore di un assoluto niente, impiegato con passione nel mestiere di disoccupato, che forse a voi parrà un ruolo sociale comodo, invece giuro che si fa una fatica bestiale su base quotidiana, fregare lo Stato non è così immediato. Incassavo tre diversi contributi di sussidio, con tre nomi e tre identità diverse, ed è paranoico far credere a tutti che in casa eravamo tre inquilini. Dovevo fare rumore, stendere più panni alla finestra, litigare con me stesso, fare tre compleanni.
Al mattino Alban Dimitru usciva presto e raggiungeva in bicicletta Piazza della Stazione, per stare con gli altri immigrati, ragionando di Ippodromsk, il mio amato quanto sconosciuto paese al confine rumeno
Poi Alban tornava a casa, mi mettevo una parrucca rasta, anelli finti su tutta la faccia e giù per strada con Pollame, il cane del vicino, cui mettevo una strategica bandana al collo. Benvenuto al Purga, tale Gioele Bernstein, primo caso di ebreo Hippy spiantato.
Infine arrivava Baio Rosso, che sarei io, io davvero, sebbene con quel casino certe volte mi veniva il dubbio di essere inventato anche in quello. Che poi come fa qualcuno a sapere di essere esattamente quel qualcuno, e non un’altra cosa?
Comunque fui io, Baio Rosso, a diventare proprietario di Casa Alta e dovermi infilare nei meandri del suo mistero che, ripeto, per me poteva restar tale. Ora che mi sovviene, non per essere puntiglioso, ma dato che un mistero non lo è più perché continuare a chiamarlo tale? Deve essere una di quelle diavolerie da scrittori. Se a fine del romanzo sappiamo chi ha ucciso la contessa, perché il titolo resta “Il Segreto della Contessa”? Dovrebbe chiamarsi “Sette coltellate per l’eredità”; un dizionario non ha mai come titolo “Le incredibili parole sconosciute”, né il libretto delle puntate potrebbe chiamarsi “La grande avventura dei cavalli in corsa”.
Pioveva un sacco, e per chi come me ama le corse, questo significa profonda nera depressione. Così di quella busta gialla consegnatami dal corriere non volli saperne niente, me ne dimenticai per giorni, preso com’ero a sognare il rombare di zoccoli di Bomba Limpida testa testa con il malefico Ultimo Vichingo, e Buccia di Mela che incalza all’uscita del tornante. Come un’olimpiade greca, che a nessuno frega se di là tirano sassi, legni o cazzotti, son tutti zoccoli, e rombi, terra battuta in nuvole d’impeto, il cuore di migliaia di ellenici che galoppa e i cavalli, si, per Zeus, Apollo e tutti i maledetti Dèi dell’Olimpo, sono al terzo giro, schiumano, paiono cavalcare sull’aria, ed eccoli al traguardo, eccoli!
Poi aprii la busta perché mi sembrava da pazzi vedere cavalli nelle gocce di pioggia che scivolavano sul vetro.
-Toh, guarda. Sono ricco. – pensai.
L’Avvocato G.B. mi informava che tale Aureo Sbucciapigna, passato ad altra vita, mi aveva indicato come erede unico di questa famigerata Casa Alta (tlin tlin, una chiave cadde dalla busta), poi tanti bla bla bla legali di cui non volli curarmi. Capii di essere ricco perché il portachiavi d’argento valeva più di tutto il mobilio della mia nobile caverna popolare, uso ufficio per piattoloni da fantascienza.
C’è che questo Aureo Sbucciapigna non ricordavo proprio chi diavolo fosse. C’era la possibilità si fossero sbagliati, e il Baio Rosso che aveva pescato il biglietto dorato non ero io.
Poi quella parte della mia anima che invece di amare fiori e la pace nel mondo verteva più che altro alla spicciola schifosa sopravvivenza suggerì che l’altro eventuale Baio Rosso non avrebbe mai saputo nulla di questa lettera… se nessuno lo informava. Cuore che ignora male non sente e poi magari era già ricco, lui, felice, e possedeva un ippodromo tutto suo. Valutiamo anche il fatto che Aureo aveva lasciato questa Casa Alta ad una sola persona: significava che non c’era nessun altro, nessun parente prossimo, quindi nessun pettegolo ficcanaso che avrebbe reclamato qualcosa.
Dunque si, quel Baio Rosso ero io, se volevo esserlo. La coscienza scoppiò come una bolla di sapone e POP, benvenuto opportunismo. Se potevo fingere di essere un albanese e un punkabbestia giudeo potevo pure provare a fingere di essere me stesso.
Sarebbe stata finalmente la mia grande occasione per campare in modo salubre, e smetterla con questa fissa dei cavalli. Non che ci veda nulla di male nelle corse, ma considerando che avevo sperperato un capitale in scommesse, perso un matrimonio, venduto auto e tutto quanto, lasciare le faccende equine mi pareva anche una gran cosa dal punto spirituale.
Salutai gli amici rumeni, inventando che ero nostalgico del mio paese, e nel ruolo del Purga feci un ultimo giro tra Centri Sociali e Sinagoghe. Nelle mie vesti umane vere puntai tutti gli ultimi spiccioli su Josephine Carlinga, in quella che doveva essere la mia ultima Tris all’ippodromo. Me ne andai di là urlando che finalmente ero libero. Addio, maledette bestiacce.

Casa Alta non era alta. Larga si, ma non alta. E non era nemmeno una casa. Ma andiamo per gradi.
L’indirizzo fornitomi dall’avvocato G.B. mi condusse ad una grande proprietà, tipo una villa, diciamo, che poi non sono e non sarò mai un architetto, quindi nessuno si aspetti che io descriva stili, fregi, capitelli, o mi metta a discernere arazzi, o fare il barocco che vi ruba quattrini riempiendo capitoli sull’arredamento di un posto che comunque non visiterete mai. Potete immaginare una grande villa? Ci potete mettere intorno un terreno di alberi e giardini? Ecco, avete quel che vi serve.
Quel che vi manca di metterci è lo strano tizio nero, enorme, che mi chiamò Signore e mi accolse con un inchino all’ingresso. Cosa che manco ai vip in tribuna all’ippodromo.
– La stavamo aspettando, Signore. Io sono Julian.
– Perché il plurale? – chiesi.
– Ha fatto buon viaggio?
– Direi di si. Beninteso, io sono Baio Rosso. Quello vero.
– E chi altri potrebbe essere? La chiave di Casa Alta era destinata al Signor Baio Rosso, l’Erede. Lei possiede la chiave dunque non ci sono dubbi riguardo la sua identità.
– Si, si, è così. Non vorrei arrivasse qualche psicopatico a dire che lui è me. Si sa come vanno queste cose, no? – commentai.
– Intende vedere Casa Alta? Suo Zio ci teneva molto.
– Zio? Ah, si ovvio, QUELLO Zio. Alvaro.
– Aureo.
– Alvaro… si, è come lo chiamavamo noi, nel privato, roba confidenziale, anzi voleva proprio essere chiamato Alvaro. A chiamarlo Aldo…
– Aureo.
– …non si voltava neppure. Forse… ehm, proprio perché NON si chiamava Aldo, ma Aureo. Aureo, ok?
Se rimase interdetto non lo dimostrò.
– Intende visitare Casa Alta?
– Beh, direi, visto che è mia. È di Baio Rosso, e io sono lui.
Immaginate, visto che siete qui ad immaginare, la scenetta di io che voglio entrare nella villa e lui che invece chiude la porta. E la scenetta di me che vengo condotto ad un maneggio, nella proprietà di quello che avrebbe dovuto essere mio Zio.
Un maneggio. Cavalli.
Inutile aggiungere che un brivido strano mi percorse la schiena, probabilmente era paura. Un cavallo minuscolo faceva su e giù nel mio sistema circolatorio.
– Ecco qua. – fa Julian, ed indica una stalla.
La targa dorata lo diceva chiaro. Casa Alta.
– Oh, diamine, no… – dico, perché poi ci si arriva.
La stupida mania di dare nomi assurdi ai cavalli.

Gaspare Burgio – Altri Lavori

Immagine di http://www.flickr.com/photos/jimmediaart/ 

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