APNEA

Testo di Riccardo Dal Ferro
Illustrazione di Marco Pasin

Trattieni il respiro.
Quando comprendi che non hai possibilità di catturare aria dentro i polmoni, il panico che ti assale possiede un che di disumano. Come un arto meccanico, esso abbranca l’animo fino a stritolarlo in una morsa inestricabile, schiaccia i fianchi e le tempie, ti permette di percepire chiaramente il pulsare di ogni singolo capillare nelle membra, diventi un circuito elettrico la cui energia è sprigionata nel dolore e i cui impulsi sono i conati di vita che la pelle a stento riesce a trattenere all’interno dei suoi labili confini. I nervi si trasformano in cavi dell’alta tensione e ti scottano dentro, bollenti.
Trattieni il respiro.
Il panico continua a correre attraverso le tue sinapsi, le contorce nella confusione caratteristica di chi scalcia nel vuoto per sopravvivere all’inevitabile, si scatena nelle vene intasandoti i pensieri, bloccando la salivazione e scaldando le budella. È incredibile come, nel silenzio di quell’apnea prolungata, la mente acquisisca la forma di un affollato mercato cittadino che moltiplica le concitate voci della tua testa, soverchiando la quiete della tua morte solitaria con il baccano inesausto di una folla immaginaria. È il soliloquio della pazzia, anticamera di ciò che ti aspetta nel momento in cui le tue ultime energie saranno sputate fuori da quel cadavere ormai pieno di niente.
La seconda cosa verso cui la tua precaria attenzione si concentra è il liquido che circonda le tue carni, come un vestito di due misure più stretto. Scalci e ti dimeni, ma non puoi toglierti di dosso quella fluida stoffa, così aderente e invasiva. Ogni suono è ovattato, bocca e occhi chiusi ermeticamente come una fortezza sotto assedio, le narici barricate dietro l’innaturale contrazione dei muscoli nasali. Percepisci chiaramente la morte che bussa ai tuoi cancelli, armata di un ariete liquido che suona la silenziosa carica per sfondare le tue ultime difese. «Devi resistere» Il sussurro che sovrasta in importanza le altre voci nella tua testa è l’unico suono cui devi prestare attenzione. «Devi resistere», ti dice. Lo ripete, ossessivamente.
«Devi resistere.» Sei un guscio inespugnabile.
Mentre i secondi diventano ore, dilatandosi il tempo nel mezzo dell’incendio che ti divampa dentro, trovi sufficiente lucidità per valutare la tua peculiare situazione. Non ricordi come sei finita lì, ti sei svegliata dentro questo calderone, le articolazioni doloranti a testimoniare forse una colluttazione, un pestaggio che potrebbe spiegare anche la perdita di conoscenza dalla quale ti sei ripresa così repentinamente. Dolore mentale e dolore fisico si confondono in sfumature di difficile definizione, il seno tumefatto pulsa sotto la maglietta lacerata, gomiti e ginocchia sbucciati bruciano ardentemente, le labbra tagliate rimangono serrate per evitare l’invasione del liquido in bocca. La confusione regna ancora sovrana sui tuoi pensieri, come se la memoria a breve termine fosse stata imbavagliata, impossibilitata a parlare. Ti giungono alle orecchie suoni indecifrabili dall’esterno di quel lago: alcuni sembrano spari, o forse martellate, altri ricordano voci umane e crudeli, concitate. La ferita nel costato, di cui prima non t’eri accorta, invia una fitta di dolore lancinante al tuo cervello. Non ricordi quale sia l’origine di quel buco tra le costole, brucia come un coltello rovente nelle carni. Maledizione, che succede?
Trattieni il respiro.
Trattienilo finché puoi, non osare di metter fuori la testa dalla superficie che ti ricopre, non sai se quel che ti attende là fuori sarà meglio o peggio di ciò che qui ti sta trattenendo. Devi prima vagliare bene tutte le possibilità. Nessuna avventatezza potrà esserti d’aiuto. Mano a mano che le ultime calorie del tuo corpo vengono bruciate e le scorte di ossigeno si fanno sempre più scarse, acquisti maggior lucidità. Ti trovi a pensare quanto sia strano come, all’avvicinarsi della morte, tutto diventi gradualmente più chiaro: i sensi si acuiscono, le percezioni aumentano esponenzialmente la loro capacità di comprensione dell’ambiente circostante.
Morire è un risvegliarsi.
È proprio grazie a questo risveglio che d’un tratto ti rendi conto della reale natura del liquido nel quale sei immersa. La risposta che inizialmente fa capolino tra le idee che vorticano isteriche ti costringe a un rifiuto quasi rabbioso, mentre il vociare esterno si mischia a quelli che sono, lo capisci chiaramente, colpi di pistola. Le tue dita inviano al cervello la sensazione di viscosità che domina quel terribile lago. Non si tratta certo di acqua, e questa raccapricciante certezza costringe il tuo cuore ad accelerare repentinamente, contro la tua volontà, buttando via preziose energie, proprio quelle che avevi deciso di dedicare alla risoluzione del problema nel quale ti trovi immersa, trafugate da un’agitazione che non puoi controllare. Riesci a malapena a resistere alla tentazione di risalire alla superficie: ora l’aria, fresca od opprimente che sia, ti sembra una salvezza paragonabile solo alla vita che nasce; i tuoi piedi, ammutinandosi contro il sistema nervoso centrale indebolito, accennano un paio di colpi di pinna, ma li fermi subito, resistendo al richiamo dell’atmosfera.
Sei soffocata, stai soffocando, la vita ti guizza dentro desiderosa d’uscire fuori, la sua forza selvaggia e inconscia non tiene conto del pericolo incombente. Ma, più forte di lei, riesci a tenerla incatenata a te, contro ogni istinto di sussistenza.
Non respirare.
La memoria è uno strano scherzo del destino. Essa può rappresentare la disfatta per alcuni, ma altri li può spingere al trionfo. È un puzzle di particolari che spesso si spezza, confondendo colori e frammenti sul pavimento della storia, e quando una memoria viene persa, ecco che forse un edificio di vaste dimensioni crolla irrimediabilmente. La memoria spesso si smarrisce, ma un piccolo impulso, una irragionevole possibilità di ricomporre ciò che è polverizzato, può restituire senso a quei pezzi sbriciolati. Nell’improbabile momento in cui le tue dita incancrenite vengono a contatto con la fredda mano di un cadavere, uno di quei pezzi va a incastrarsi al giusto posto, iniziando a formare un ormai insperato mosaico. In quell’istante, alcune delle voci che senti immergersi attorno a te, voci provenienti dalla superficie asciutta che ti attende là fuori, ti riportano alla mente molte facce celate nell’ombra del tuo ippocampo: alcuni volti amici e altri nemici, sottratti al tuo sguardo inorridito da un colpo di fucile, da un coltello conficcato, da una corda stretta attorno a un collo.
È una piscina di sangue, quella nella quale tieni stretta la tua apnea.
Il flash che ti attraversa sconquassa le carni d’un tratto, a ritroso il ricordo viene trasferito dal subconscio traumatizzato alla vivida coscienza che ora brucia di rabbia: l’esanime tuffo in quel lago di morte, il colpo di pistola a bruciapelo nel costato, il pestaggio subito da barbari in mimetica, l’inutile ribellione, tuo marito sgozzato come un maiale davanti al villaggio in fiamme, tuo figlio scappato in mezzo al bosco assieme alla speranza di rivederlo, un giorno, vivo o morto. Le urla degli abitanti, le donne straziate, le mimetiche che ridono di un riso crudele.
Maledette, maledette, maledette!
Tutt’attorno a te galleggiano cadaveri, è uno spavento quello che t’assale improvviso, come se la mente esplodesse, incapace a sopportare quell’overdose di realtà sparata nelle vene nell’arco di un brevissimo istante. Ti accorgi del piede umano che ti solletica il seno scoperto, la carezza delicata e senza vita di un uomo o una donna ti lambisce la schiena nuda, i tuoi piedi poggiano non su un fondale di sabbia, bensì su di un carnaio popolato da corpi straziati il cui sangue ha interamente rimpiazzato l’acqua della riva del lago, trasformandolo scientemente in una fradicia fossa comune di vergogna e rovina. La devastazione che ti circonda, il plasma che avvolge il tuo corpo ancora vivo e grondante di orrore, la memoria che percorre incessantemente il sistema nervoso dall’ipotalamo fino all’ultima goccia di midollo spinale per poi fare ritorno: tutto questo, invece di distruggerti, riempie nuovamente le tue stanche membra con una forza inattesa, come se la vendetta sostituisse l’ossigeno dei muscoli; la rabbia, l’aria dei polmoni; la tensione, la fame di luce nuova.
È vita, quella che senti?
Forse è la vita perduta di tutti coloro che accalcano questo fondale: essa grida attraverso te, trovando nelle tue narici che sbuffano sangue, nei tuoi occhi che si spalancano sfidando il bruciore, della tua bocca che con un urlo prosciuga questa pozza di morte, trovando nella tua vita risparmiata un mezzo per reclamare un tributo inevitabile. Forse non sei più te stessa poiché, quando ti avvicini troppo alla tragedia, il tuo animo si rintana in un angolino distante della mente, nascondendosi allo sguardo dell’inferno. Forse, in un momento come questo, tu sei qualcun altro, trasfiguri le tue stesse carni in uno spirito che mai avresti potuto immaginare, e che forse nemmeno il destino avrebbe avuto l’ardire di disegnare per te.
Quando ci si accorge di quanto è stato perduto, allora ci si rende conto che nascondersi sotto la superficie del lago, sia esso colmo di sangue o di acqua, non ha più senso. Si deve riemergere, giocandosi il tutto per tutto, e riportare la testa laddove potrà cercare la soluzione o, tutt’al più, una vendetta senza compromesso.
Stringendo la mano del corpo che accanto a te galleggia, sottratta a un fratello o a una sorella, trai una boccata corposa e tiepida di quel viscoso liquido rosso, lasciandoti possedere lungamente dal ferroso gusto che ti va lentamente a lastricare l’intero esofago, lo lasci immergersi dentro di te, come un docile fantasma. Dandoti una spinta con i piedi sui crani e i corpi che affollano tristemente il fondale del lago, spalanchi gli occhi, in un conato di vomito che t’assale e al quale ti costringi a resistere, stoicamente. Le pupille bruciano d’un pianto scarlatto, il tuo cervello rallenta lo scorrere dei secondi e riesce a guardarsi attorno, nell’opaca violenza che t’accompagna in questo ultimo viaggio: il rosso vivo tinge indistintamente il tuo campo visivo, e il ricordo che ti torna alla mente è quello dei mille tramonti mediterranei che così tanto hai amato durante le numerose sere primaverili, quando la mano del tuo amato possedeva ancora la forza per stringersi attorno alle tue dita sfrigolanti di desiderio.
Quel che ti attende, là sopra, lo sanno solo gli dei. Ma se solo riuscirai a sopravvivere, allora non tutto sarà perduto.
Con la forza della vita di tutti coloro che in quel luogo hanno incontrato la morte; con la consapevolezza di non essere più nient’altro se non un automa composto di macerie dimenticate; con i brandelli di vestiti, il buco nel costato, la solitudine della vittima e il sangue dentro e fuori del corpo, il tuo urlo sventra finalmente la superficie del lago purpureo.
Respira. Ora.

Riccardo Dal Ferro – Altri Lavori

Marco Pasin – Altri Lavori

Fonte: http://sotterfugi.wordpress.com/

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