SUPERMARKET

Testo di Riccardo Dal Ferro
Illustrazione di Marco Pasin

A volte, sembra che gli scaffali di questo Supermercato siano vivi.
Tutto è plasticamente dipinto in una tonalità di blu tanto corposa da acquisire fluorescenza, entra negli occhi come uno tsunami nella città indifesa del tuo cervello.
Ogni mattina ti rechi al lavoro e quell’onda blu ti fracassa il cranio, una volta aperta la porta scorrevole che, come uno dei tanti riti del nuovo millennio, si chiude alle tue spalle con il sibilo che ti aspetti appartenga a un serpente a sonagli.
Ci sono le piastrelle, le casse automatiche. Ci sono le fibre ottiche e i sensori di movimento. Ci sono le cassiere e il direttore. Tutto questo marasma dà il benvenuto al tuo nuovo giorno in questo mondo, ricordandoti che il tuo tempo residuo viene costantemente assorbito dalle persone e dagli oggetti che assediano i tuoi piccoli spazi.
Più sono gli elementi di cui ti circondi, più in fretta muori.
Il tuo lavoro consiste nel riordinare prodotti. I cereali devono stare con cereali, biscotti, grissini, nello scaffale numero 6 che fronteggia quello della pasta, delle lasagne, del pane da hamburger americano, imprigionato dentro sacchetti di plastica da almeno tre mesi. Se ti concentri troppo sulle date di scadenza finisci per dimenticare la provenienza dei prodotti, perché ti è inevitabile pensare intensamente a dove finiranno una volta consumati.
Formaggio stagionato proveniente dal sud della Francia, ti guarda storto mentre gli appiccichi un codice a barre, il linguaggio delle macchine che tu non comprendi ma lasci diffondere passivamente. Bibite gassate ridono alle tue spalle. Le senti, ridicolizzano la tua divisa inamidata, quella con la quale ti immagini sepolto sotto il crollo dell’edificio, sforacchiato dalle pallottole di un inserviente impazzito, amoreggiante nel corridoio con la giovane mamma che sta soppesando due limoni maturi come fossero umide palle.
Ci chiamano “società dei consumi”, ma qui niente viene consumato.
Piuttosto, siamo noi a venire consumati.
Detersivi chiacchierano sommessamente di quale sia la lavatrice dei loro sogni, mentre la vecchina con il barboncino ben pettinato per l’occasione legge componenti chimici di cui non comprende l’etimologia, su etichette incollate da automi provenienti da chissà quale racconto di fantascienza, attraverso lenti di fabbricazione indonesiana. La corsia dei prodotti per la pulizia della casa è sempre gremita di casalinghe sconfortate e madri single i cui capelli brillano di shampoo Ultraviolet acquistato a soli 7 € in sconto, proprio tra questi corridoi.
Pulisci senape sparsa sul pavimento da qualche bambino bastardo, raccogli gusci d’arachide mangiati di nascosto da qualche cliente circospetto, che cercava di soddisfare la propria fame di trasgressione, più che quella fisiologica. Pulisci pomodoro versato a terra, ligio al tuo dovere, ma ti accorgi distrattamente di non trovarti nel corridoio degli alimentari, tantomeno di fronte allo scaffale dei concentrati TomaToto. Non ci sono cocci di bottiglie rotte, né confezioni private della loro ermetica perfezione, eppure c’è un denso liquido rosso che macchia il pavimento in PVC blu, che si spande come una macchia informe, sottraendo all’ambiente il proprio asettico orgoglio. Il direttore ti fa tornare alla realtà: «Pulisci quel disastro di pomodoro, brutto incapace!»
Pomodoro un cazzo.
Gli scaffali di questo Supermarket sono vivi.

*

Questo luogo è costruito per disorientare.
Un tempo i viandanti potevano far riferimento a molti degli elementi naturali a loro disposizione per ritrovare la strada perduta. Chi preferiva agganciare le proprie speranze al nord, tenendo d’occhio la Stella Polare; chi, più esperto in astronomia, seguiva la mappa immaginaria disegnata nel cielo dalle costellazioni. Altri, maggiormente legati alla terra, seguivano i corsi dei fiumi, leggevano i muschi sui tronchi e traducevano in coordinate le correnti dei Monsoni che percorrono il mondo. Il Sole, con il suo balenare da est a ovest, comunicava silenziosamente l’ora della giornata.
La natura è una bussola.
Qui invece tutto è un’ombra immobile, costantemente proiettata sul pavimento da luci artificiali che non mutano mai durante l’incessante scorrere del tempo. Le stelle sono rinchiuse fuori, e non basta semplicemente uscire dall’edificio per tornare ad ammirarle. Le stelle qui smettono di esistere.
Del Sole, qui dentro, ci si dimentica l’esistenza.
Dello scorrere del tempo, qui dentro, ci si scorda l’ineluttabilità.
Il direttore dice che dobbiamo essere più attenti, più cordiali, più intraprendenti, più ordinati, più disponibili, più sorridenti, più seri e professionali, più puliti.
Dice che il nostro Supermarket mette a disposizione dei propri clienti prodotti a misura d’uomo. Dice che ogni cosa è disegnata e disposta in modo da agevolare la fruibilità, facilitare l’utenza, accattivare le simpatie. Si tratta di uno studio attento, conferma lui.
Il direttore dice: «Il prodotto imita colui che lo compra.»
Dice: «Il prodotto vuole stare simpatico al fruitore.»
Ci guardiamo tutti un po’ alienati, lo ascoltiamo avidamente, le sue parole frammiste alla musica elettronica che si mimetizza nell’aria respirata.
Respiriamo note di Britney Spears.
Gli occhi della cassiera adibita alla postazione n°5 sono quelli che attribuiresti a una triglia appena pescata. Le sue mani tradiscono un invecchiamento precoce, un nervosismo paranoide, il vizio di mangiare le unghie nonostante siano cosparse di smalto al pepe. La cassiera della 5 non sorride mai.
Gli occhi degli altri sono fatti tutti di vetro. Almeno così mi è sempre parso, ma sono consapevole che ognuno di loro potrebbe pensare lo stesso di me.
Il direttore dice: «Amate il cliente.»
In realtà sono sempre stato convinto che siamo noi ad aver imitato i nostri prodotti: fagiolini in scatola, asettici e ripuliti da terra, da vermi, da polvere. Piselli sottovuoto, sottaceti confezionati in plasticosi barattoli chiusi ermeticamente, datteri privati di ossigeno per evitare che vengano danneggiati. Ecco quel che siamo.
Siamo fottuti fagiolini in scatola.
Il direttore dice: «Alcuni di voi non mi piacciono.»
Riprende: «Chi non piace a me, non piace al Supermarket, perciò non piace al cliente.» Il suo sguardo punta dritto su di me, sul blu cobalto della mia uniforme, sulla mia mano stretta attorno allo scopettone ancora fradicio di quello strano pomodoro che spesso trovo a terra nel reparto dove non dovrebbe esserci pomodoro. Fissa i miei occhi. Fissa i miei capelli diradati precocemente. Potesse vedere dentro questa testa, troverebbe il vuoto che percepisco. Vuotamente.
Sono un fagiolino in scatola.
Sono un pisello sottovuoto. Vuoto fuori e vuoto dentro.

*

Lo slogan dei cereali Freaks è: «Mangiali in fretta, altrimenti ti mangiano loro!»
Quello dei biscotti Lion: «Non ci vuole molto coraggio per inghiottirne uno!»
Interi scaffali di prodotti accatastati, pronti a marcire sulle mensole per i mesi successivi. Solo una piccola parte di essi andrà venduta alla clientela sognante, il resto verrà accumulato nei magazzini di capannoni lontani mille miglia dalla civiltà, montagne di produzioni invendute utili a rimpinguare i cimiteri del Terzo Millennio.
La Società dei Consumi non esiste.
Tendiamo piuttosto ad accumulare costantemente quantità industriali di rifiuti, scaviamo le profondità della Terra per ricavarne plastica, poi affolliamo le sue superfici producendo giocattoli e oggetti che finiranno nell’esubero commerciale di ciò che è stato dimenticato e accantonato, creando montagne di inutilità, colline di spazzatura, oceani di abbandono.
Svuotiamo le profondità per riempire le superfici.
Sembra si parli della Terra, ma spesso questo vale per il nostro animo.
Giri l’angolo e vedi la solita vecchina con il solito barboncino pettinato che viene agguantata dagli spray di insetticida NoBug, cerca di dimenare le gambe, ma viene sollevata da terra, strozzata e impossibilitata a cacciare un grido. Sotto i suoi rantoli, Bon Jovi canta It’s My Life, il gelido spiffero del reparto surgelati che sta nella corsia parallela ti fa rizzare i peli delle gambe. O forse, è la scena agghiacciante che ti si para di fronte a darti la pelle d’oca. La vecchina viene soffocata da uno spruzzo di spray velenoso nella gola, smette di respirare. Crolla a terra inerte come un sacco vuoto e lo scaffale, facendo sapiente uso delle confezioni di guanti in lattice, trascina sotto a sé il cadavere raggrinzito della vittima, mentre un suono di masticazione insistente si mischia alle ultime note rock del pezzo di Bon Jovi.
Il barboncino osserva assorto la scena, senza abbaiare, docilmente seduto a terra. Scodinzola. Lo scaffale finisce di masticare, sul pavimento rimane solo un alone di sangue rappreso, qualche pezzo di carne macilenta e la dentiera risputata, indigesta. Il cane si volta a guardarti, gli occhi privi di rancore, non si chiede come mai tu non abbia fatto nulla per impedire all’insetticida di divorarsi la vecchia. I neon illuminano il corridoio deserto, gli spray digeriscono in silenzio, mentre il freddo si attenua.
Tu e il barboncino vi sentite legati, testimoni di un fatto straordinario.
Siete entrambi peperoni sott’olio.
Lo slogan dei bocconcini di pollo ChickenWonder recita: «Persino Apollo mangia il pollo!» Quando ora vedrai del pomodoro a terra, ai piedi dello spazio dedicato al ChickenWonder, saprai che non è pomodoro.
Il tuo lavoro è pulire quel disastro a terra. Allontani il barboncino, la spugna assorbe sadica il plasma riverso al suolo, lo scaffale ti osserva fieramente. Ti chiedi perché non voglia mangiarti. La risposta più ovvia, quella secondo cui la sua fame è già stata placata, possiede meno fascino di quella che preferisci: sei il suo servitore, fedele assistente che ne custodisce il segreto.
Il consumo, consuma.
A volte, gli scaffali di questo posto sembrano vivi.

*

Il bimbo viziato sparge senape a terra con un beffardo sorriso, tu osservi cautamente la sua malefatta, nascosto dietro il reparto dell’intimo. È un lampo quello in cui uno sciame di barattoli di ketchup Salxxa gli zompa addosso, un repentino frastuono che però lascia indifferenti gli altri clienti che percorrono come zombie i corridoi del Supermarket. Quando raccogli i barattoli a terra, del bimbo rimangono solo frattaglie distorte e ossa fratturate, e con fare risoluto e indifferente spingi la carcassa tra le fauci metalliche dello scaffale 12, “Alimentari e Conserve”, cosicché ne esca un lavoretto bello pulito.
Era meglio se te la mangiavi, la senape, moccioso.
“Alimentari e Conserve” mastica in fretta il corpo esanime, ne sputa fuori una catenina d’oro, una scarpa, mezza T-Shirt insanguinata.
In poche ore sei testimone di molti crudeli pasti da parte dei prodotti ben ordinati e catalogati che saziano la propria fame di carne umana. La cassiera della 12, poco avvezza al ripristino delle confezioni di maccheroni, divorata tra urla soffocate da un’orda di linguine fatte in casa, masticata e sbranata, inghiottita avidamente fino a far deglutire alle lasagne persino la sua voce; un trentenne single, visibilmente eccitato di fronte alle riviste porno, evirato e poi decapitato d’un colpo da pagine traboccanti di donne nude affilate come lame d’acciaio, la testa rimbalzata a terra e poi fracassata contro gli espositori che, con fare esperto, si succhiano fuori il cervello senza allarmare il resto della clientela.
Il motto del settimanale Eroty: «Non sei tu che te la bevi, è lei che beve te.»
Tu devi pulire tutto questo, mentre Lady Gaga va in sottofondo, a dar ritmo alla carneficina.
Il direttore ti dice: «Sei diventato un peso inutile per la società.»
Il direttore continua: «Ci saranno tagli al personale.»
I clienti disorientati, sottratti alla loro natura persino nel più intimo degli istinti, quello di sopravvivenza, vengono spogliati delle proprie capacità di auto-difesa: non v’è appiglio utile a orientarsi, i neon sono statici proiettori di ombre artificiali, nessun albero, nessun muschio, nessuna stella che possa aiutarli a trovare le giuste coordinate per salvarsi da questa follia che nutriamo ogni giorno.
Entri qui e diventi carne in scatola, pronta a esser consumata. I tuoi capelli sono spaghetti confezionati con cura, i tuoi denti chiodi per il fai-da-te, i tuoi occhi sono biglie colorate per il diletto di bambini stravolti dalle pubblicità. Entri qui e il tuo pisello è un cetriolo OGM, da affettare con cura, le tue dita salamini prelibati, la tua pancia un tamburo da battere.
Sei soltanto fagioli. In scatola.
Sei pomodoro riverso a terra, perché il tuo sangue lo è.
Il direttore minaccia: «Ho bisogno del tuo preavviso, attendo la tua lettera di dimissioni domattina.»
Il barboncino si avvicina troppo allo scaffale del cibo per animali. Il suo pelo diligentemente pettinato viene strappato con malcelata arte da un sacco di biscottini DoggyStyle: «Il tuo cucciolo abbaierà di gioia.» E invece i rantoli e i guaiti della povera bestia si fermano solo quando il suo corpo viene spezzato a metà, ripiegato su se stesso per diventare un boccone più facile da inghiottire.
Sparisce, così come la padrona.
Diventi cibo per il cibo.
Il direttore aggiusta la cravatta, ti congeda con uno sguardo di disprezzo, ma non sa quello che lo aspetta. Io sono il servitore fedele di forze che lui nemmeno può immaginare, testimone occulto e solitario di una magia antica, travasata dalle profondità di poteri ancestrali in questa realtà abietta che prende il nome di “commercio”, “industria”, “consumo”. Solo che non siamo noi a consumare: noi creiamo, forgiamo, cumuliamo, accatastiamo, per poi venire consumati silenziosamente, docili prodotti dei nostri stessi prodotti.
Non è divertente, tutto ciò?
Il direttore dice: «Dimettiti.» Ma tu non puoi, e di certo non hai possibilità di spiegargli il perché di questa tua impossibilità. L’unica cosa che ti esce dalla bocca è un qualche cosa che lo lascia attonito, un qualcosa che non può comprendere: «Pomodoro un cazzo.»
Nancy, reparto profumeria, sciolta sotto una doccia di deodoranti caustici, acidi al tulipano, colonie solforiche, bevuta d’un sorso dallo scaffale 8, “Igiene e Intimo”, assetato di succo d’essere umano.
Frank, macellaio del reparto “Carni e Salumi”, affettato crudelmente dai suoi stessi coltelli, consumato pazientemente dalla sua postazione sotto la forma di quei panini che per tanti clienti lui aveva in precedenza preparato.
Perché tutto questo? E soprattutto, perché tu non sei mai stato toccato?
Sei il fedele servitore di questo massacro senza nome. E sei vuoto, come il Supermarket.
La tua voce risuona fredda attraverso i corridoi cannibali: «Il direttore è desiderato alla corsia numero 10. Il direttore è desiderato…» Il microfono amplifica il piano congegnato, dà vita al crudele disegno che impedirà alle cose di prendere questa brutta piega. Corsia numero 10, “Alimentari e Salse”, il direttore arriva di corsa con la sua divisa blu cobalto identica alla mia, non fosse per il cravattino bianco che contraddistingue i “gradi” nella nostra compagnia. Si guarda intorno trafelato, gli occhi scavati in orbite troppo stupide e inconsapevoli per avere paura di ciò che sta per accadere. Il tuo posto è nella corsia adiacente, in attesa che qualche cosa accada. Guardi attraverso lo scaffale, il direttore osserva gli enigmatici barattoli di conserva, le sospette bottiglie piene di passata di pomodoro, i crudeli pelati richiusi nel vetro che, di rimando, si leccano baffi che non hanno.
Ogni cosa torna alla propria natura, e l’uomo torna al consumo.
Attendi paziente un artiglio, un braccio fatto di morte e distruzione, ti aspetti che questi prodotti siano lì per aiutarti, questa volta, visto il tuo fedele e irreprensibile servizio. Ma quando ti rendi conto che i pomodori non stanno assalendo la loro vittima designata, la risoluzione a cui giungi è la più rischiosa, quella che non avresti voluto adottare: di fronte a te, il reparto “Formaggi e Salumi” ti osserva silenzioso, tu prendi la rincorsa e colpisci con una spallata il grande collettore pieno di cibi prelibati, facendolo oscillare pericolosamente, mentre un gorgonzola famelico si attacca alla tua coscia e un insaccato si appiccica sanguinolento alla tua spalla, una canzone di Eminem si infila nel tuo padiglione auricolare, ma tu imperterrito colpisci un’altra volta dopo l’ennesima lunga rincorsa lo scaffale che, anticipato dall’urlo di spavento del direttore, cade pesantemente nella corsia dove quest’ultimo tentava la fuga. Lo scaffale ne sommerge la triste figura, sventra le sue ossa sul pavimento blu riversando tutto il suo immane peso, le bottiglie di pomodoro si fracassano e si mischiano al sangue obeso del tuo capo. Tra rantoli, gorgoglii nauseanti e rumori di fratture, senti distintamente lo scaffale che mastica soddisfatto le carni della vittima, mentre ti togli di dosso i formaggi e i salumi che hanno cercato di divorarti. Sul pavimento, un ritratto di devastazione consumistica, un peana di rivoltante orrore si compiace dell’inaspettato pasto.
Il Supermarket è deserto, ormai la sera è giunta, anche se all’interno della scatola dove sei rinchiuso niente te lo fa indovinare. Il rivolo di pomodoro lambisce i tuoi piedi, mentre ti viene in mente lo slogan della conserva TomaToto: «Moriresti per un cucchiaio di Me!»
Il tuo lavoro è salvo, puoi tornare ad essere il servitore fedele di tutto ciò che qui dentro ti circonda e ti possiede.
Domattina, probabilmente immemore di ciò che è accaduto qui dentro quest’oggi, ti sveglierai e ti recherai al lavoro, ben sapendo che sei un fagiolo sottovuoto.
Ben sapendo che sei materiale di consumo.
Nel frattempo, non ti resta che pulire il disastro della corsia numero 10, “Alimentari e Conserve”, e così la spugna assorbe lo scarlatto disastro che giace a terra, assieme a quella stupida Umanità che ancora si vanta d’essere popolo di consumatori.
Tu nel frattempo sei consapevole che la tua vita continua a finire, un litro di pomodoro alla volta.
Pomodoro un cazzo.

Riccardo Dal Ferro – Altri Lavori

Marco Pasin – Altri Lavori

Fonte: http://sotterfugi.wordpress.com/

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