1.
La bambina abitava in un appartamento, disposto su due piani, sulla Hoffnungstraße. Strano nome da assegnare ad una via che, in realtà, era un vicolo. La sua stanza era al piano inferiore, l’unica apertura era rappresentata da una porta. Su una parete c’era un trompe d’oeil, una finta finestra affacciata sul mare. Nella casa vigevano delle regole ferree imposte dal suo maestro-padre-tutore, precetti che lei doveva rispettare. C’erano delle ore prestabilite in cui poteva giocare con bambole cui erano stati asportati gli occhi e tappata la bocca con nastro adesivo, ma non doveva fare alcun rumore, non le era permesso né di ridere né di parlare. C’erano i momenti in cui doveva svolgere i compiti: mandare a memoria interi capitoli di storia, in cui si narrava di guerre, di terre conquistate, di schiavi deportati e venduti; imparare le tabelline, riempire decine di pagine con aste e gambe, ricopiare centinaia di parole per imparare la calligrafia.
Il maestro-padre-tutore la interrogava; la colpiva col righello o la bacchetta se lei non rispondeva. La bambina non sapeva più farlo, abituata com’era a non parlare mai. Talvolta, terrorizzata, provava ad articolare qualche parola sussurrata ma inevitabilmente la risposta era giudicata sbagliata e, per questo, lui la puniva. Aveva imparato a stare zitta.
Le disposizioni, inoltre, prevedevano che vi fosse il cambio d’abito obbligatorio: una divisa per i giochi ed una per i compiti.
Una sirena stabiliva qual era il momento per gli uni e per gli altri. Non appena udiva il segnale, lei doveva velocemente indossare l’una o l’altra uniforme, secondo quale fosse l’impegno successivo. Aveva a disposizione tre minuti per farlo. Gli abiti dovevano essere sempre puliti ed in ordine e, soprattutto, sempre diversi da quelli da lei indossati in precedenza. Se ciò non accadeva, o se impiegava troppo tempo, il suo maestro-padre-tutore la bacchettava. Di tanto in tanto lui usciva dalla casa per compiere alcune commissioni e la lasciava da sola, nella sua camera chiusa a chiave. Erano i momenti in cui poteva ascoltare la sua voce. Immaginava di affacciarsi a quella finestra e dalla sua bocca uscivano dei suoni dolcissimi, modulati come fossero la voce di una sirena che si dissolve nella schiuma del mare.
2.
E’ primavera, la stagione del tuo compleanno. E’ il giorno del tuo compleanno. Ti svegli e rimani disteso a letto, immobile ed incapace di tutto. Oggi non andrai al lavoro. Ti sei preso un giorno di ferie, una consuetudine che mantieni da anni, per evitare di festeggiare il tuo anniversario offrendo da bere ai colleghi. Ieri ti hanno detto che sei ancora giovane, oggi inizi a nutrire qualche dubbio in merito. Sei arrivato al giro di boa, a metà di una vita che ti fa azionare la memoria. Il ricordo ti fa paura. Per anni hai perlustrato i perimetri esterni, lasciandoti cullare dai percorsi estremi, sicuro che la giovinezza e la salute durassero in eterno. Un tempo avevi incontrato l’amore, ma non l’avevi riconosciuto subito, così l’avevi lasciato sfumare per quell’immagine di te che ti eri imposto come una camicia di forza.
Vorresti mollare tutto, fare le valige e partire, rivedere quei luoghi in cui sei stato felice. Ma le incombenze sono tante, troppe, ed il solo pensarci ti sfinisce: chiudere i conti, vendere la casa ed i mobili, e poi ci sono tutti i libri, e le fotografie appese alle pareti come fossero quadri… Già, le fotografie…
Giri la testa, lo sguardo scorre lungo i muri, fissi le immagini, i luoghi, i volti. Potresti regalarle a qualcuno, ma a chi potrebbero interessare? Oppure sarebbe meglio strapparle in mille pezzi e poi gettarli, per non rivederle più, per non ricordare…
Le ore scorrono e tu sei ancora lì, supino. La luce sta scemando, mentre l’urlo di una sirena che si allontana ti scuote dal tuo magmatico torpore e ti ricorda che domani dovrai tornare al lavoro.
Epilogo.
Mi ritrovo a camminare tra la gente come se camminassi tra le tombe. Sono una di passaggio. Nessuno sa di me, da dove vengo e dove sto andando. Nessuno si preoccupa di chiedermelo. Ogni tanto posso permettermi di fermarmi a riposare. Il volto tra le mani. Non cerco più una ragione per ogni cosa.
Ciò che è stato è stato, ma nulla sarà più come prima. E non rinuncio a pensare.
Mi siedo sulla panchina delle memorie, di quelle che toccano il cuore ed inizio a commuovermi. C’è stato un tempo in cui amavo, e speravo che si compisse il miracolo, di poter veder ardere la fiaccola, di poter vedere il cielo ed il mare, veder l’uno confluire nell’altro, ed in esso fondersi. Il mare, quello in cui ora mi immergo, come una sirena. Prima di scomparire del tutto volgo per l’ultima volta lo sguardo all’indietro, ma ciò che scorgo è ancora e soltanto utopia.
di Morgendurf – Altri Lavori
… bella l’immagine che hai scelto… quello sguardo emana una luce significativa… 🙂
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