IL VETRO OPACO

di Gaspare Burgio

Ci sono vetri molto trasparenti, cristallini, che sembra di poterci passare attraverso con la mano. Ed altri che invece sono opachi, smerigliati, che dall’altra parte non si vede. C’era una porta a vetri quando andavo all’asilo, che divideva l’androne di ingresso dal corridoio delle aule. Aveva un infisso bianco, e i vetri sfaccettati sbattevano quando la porta veniva chiusa.
Guardavo tanto attraverso quel vetro. C’erano anche altre cose da guardare, come l’albero di diosperi. Odiavo quella frutta, e non so come mai la mia attenzione era catturata dal picciolo verde, attaccato al ramo, fatto a stella con le punte sottili, e quella lampadina arancione, sovrappeso, che matura mandava un’odore orribile. Suor Margherita un giorno prese un diospero e me lo aprì davanti agli occhi, con quelle dita sottili e lunghe lunghe, e il dorso picchiettato di macchie, per mostrarmi i semi. Rividi mani e gesti simili solo in Patrizia, una delle maestre delle elementari. Mi spiegò come poter dividere una banana in tre parti per il lungo, e togliere così qualche pezzo annerito.
A ripensarci oggi Patrizia, con tutte le lentiggini, era proprio una bella donna, anche se non me ne innamorai mai nel modo che fanno i bambini.
Oltre a considerare il diospero c’era altro da fare, come scendere giù, ad un cortile pavimentato, con una giostra arrugginita e due altalene che a me facevano molta paura. C’era Elisa, una bambina mora, zingaresca, che fu anche la mia compagna di banco alle elementari, poi a sette anni si trasferì e non la vidi mai più. E poi c’era Suor Margherita, che mi teneva di conto, dandomi di straforo la crema al cioccolato, chiamandomi in segreto a darle mano in cucina se faceva biscotti o dolci. Venne qualche volta in casa per regalarmi dei libri, o portarmi da mangiare. Ho scoperto molto più tardi che lo faceva perché eravamo una famiglia povera. Lo siamo da diverse generazioni, per noi il dopoguerra non è mai finito e gli anni sessanta forse terminarono prima di raggiungere la nostra porta. Non ricordo infatti abiti o balocchi che non fossero lo scarto di qualcuno che cresceva. Sino a quindici anni portavo indosso la roba dismessa di un certo Athos, un ragazzo odioso figlio di antiquari. È morto l’anno scorso, per la puntura di una vespa, da solo, in un campo.
Anche Elisa era povera, ma a me non importava. Aveva sempre i capelli in disordine, gli occhioni neri, e rideva molto. Forse eravamo amici.
Ma, come cercavo di dire, ci sono vetri trasparenti ed altri opachi, e quello dell’asilo era opaco. Ed io stavo davanti a quel grande vetro tutto smerigliato e scolpito, sfaccettato come un diamante messo in piano, e spesso ne seguivo col dito i profili, cercando di vedere sempre cosa ci fosse aldilà. Quelle forme diffratte, tutte scomposte, come poi avrei trovato soltanto nei dipinti impressionisti.
Vedevo e credevo molte cose strane. Che le ombre impresse sul muro dalla gabbia di ferro dei lampioni fossero fantasmi addormentati. Che socchiudendo gli occhi i raggi allungati al confine dello sguardo mi entrassero dentro e mi dessero la vita. Che camminando a piedi nudi potevo ascoltare la terra.
Non so davvero spiegare però perché passassi il mio tempo a questo modo, davanti al vetro opaco, o perché in cuor mio sentissi che non avevo quattro anni, che era tutto un equivoco, ero già grande ma il tempo stava andando troppo piano. Però ricordo bene, e lo ricordo, che guardavo attraverso quel vetro opaco, e sentivo di fare qualcosa di giusto e significativo, molto più che giocare con Lapo deSantis a tirarci i cubi di plastica, o disegnare case e soli inesistenti. Credo che sia stato perché un bambino di quattro anni non dovrebbe vivere qualcosa che è più grande di lui, che in testa forse gli entra, ma manca tutto il resto delle cose per capirla.
In fondo la solitudine non è poi diversa da guardare il mondo attraverso un vetro opaco.

Gaspare Burgio – Altri Lavori

Foto di: http://www.flickr.com/photos/huffstutterrobertl/

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