LA BICI DI GINO

di GM Willo

Gino non va più in bicicletta. Adesso ha la familiare con i seggiolini per i bimbi, e lo scooter per muoversi in città. Però io continuo a ricordarmelo sui pedali, magro come un fuscello, con la chioma paglierina al vento. Arrivava sempre tardi, ma era impossibile fargliela pesare. D’altra parte lui veniva in bicicletta, mentre noi eravamo tutti motorizzati. Scendeva di sella con l’agilità di un furetto, il sorriso stampato sul volto e la battuta pronta. Noi sedevamo sulle panchine con le lattine di birra e i cicchini, a ragionare di quello che avremmo combinato. Il più delle volte rimanevamo lì, a rovellarci il cardine, come diceva quel famoso libro. Questo ovviamente d’estate, con la città vuota e tutta la notte a nostra disposizione per dimenticarci chi eravamo.
Gino indossava il giacchetto di jeans su una maglietta degli Iron Maiden. Cerco di ricordarmelo vestito diversamente ma non ci riesco. Per almeno tre anni, il tempo delle serate sulla panchina o al bar in pazza, non credo abbia mai indossato altro. Il ricordo di com’era mi torna in mente così vivido che faccio una fatica tremenda a riconoscerlo adesso, mentre esce di casa con la bambina in braccio. Io rimango dall’altra parte della strada, nascosto dietro a un furgoncino della Iveco, ed osservo. La chioma se n’è andata, una pancina gli deforma la camicia celeste sotto la giacca, e del vecchio sorriso non è rimasta che l’ombra. Apre la portiera della station wagon, allaccia la cintura del seggiolino della piccola, poi prende posto sul sedile del guidatore. Un attimo dopo viene risucchiato dal traffico cittadino ed io posso finalmente uscire dal mio nascondiglio.
In quel momento la vedo, nel giardino del condominio, seminascosta da un vaso di fiori. Mi avvicino per assicurarmi che sia proprio lei. Legata con un catenaccio all’inferriata dello scantinato, le gomme a terra e la catena rugginosa, il campanello divelto e il telaio storto, là giace quel che resta della vecchia Bianchi. È lei, non ci sono dubbi. Chissà perché non se ne libera, mi chiedo. Forse per lo stesso motivo per cui conservo ancora il mio zaino di pelle, quello che riempivamo di lattine di birra prima di entrare ai concerti. Preso dalla nostalgia agguanto il telefonino e scatto una foto al relitto a due ruote, poi ritorno sul marciapiede e proseguo per la mia strada.
Dovrei chiamarlo uno di questi giorni, o magari mandargli una email. Si, bisognerebbe riorganizzare qualcosa, magari al vecchio bar. Penso a queste cose, ma ad ogni passo la mia iniziativa perde di slancio. Quando arrivo a lavoro non mi ricordo già più nulla dei miei bei propositi. Ci ripenso la sera, prima di addormentarmi. Mi sento un po’ in colpa per non essermi fatto vedere, né sentire, ma in fondo succede a tutti. Basterebbe poco, certo, ma forse quel poco è molto più di quello che si pensa. Però il senso di colpa rimane. Si, lo chiamo domani, mi convinco.
E finalmente mi addormento tranquillo.

GM Willo – Storie di un Click

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